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Appello Cucchi: i passi verso la verità

La requisitoria del procuratore generale riconosce il "vero e proprio pestaggio" subito da Stefano Cucchi dopo l’udienza di convalida del suo arresto il 16 ottobre 2009, imputandolo agli agenti di polizia penitenziaria assolti in primo grado. I passi avanti e i punti ancora da chiarire per raggiungere la verità. L’analisi di Duccio Facchini, autore dell’inchiesta "Mi cercarono l’anima. Storia di Stefano Cucchi" (Altreconomia edizioni)

 

Stefano Cucchi è stato vittima di un “vero e proprio pestaggio” dopo l’udienza di convalida del suo arresto, che si tenne nella tarda mattinata di venerdì 16 ottobre 2009. Il suo “esile corpo ha scattato impietosamente la fotografia dell’aggressione” subita, che è stata “volontaria e intenzionale”. 


Così il procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Roma Mario Remus ha ricostruito lo scorso martedì 23 settembre i fatti occorsi a Stefano Cucchi, trentunenne romano con la passione per la boxe finito nella custodia dello Stato il 15 ottobre 2009 e morto sette giorni più tardi, all’ospedale carcere Sandro Pertini. 
 
La requisitoria di Remus è giunta a poco più di un anno di distanza dal deposito delle motivazioni della sentenza di primo grado della III Corte d’Assise di Roma nel processo che ne è scaturito, e che ha visto al banco 12 dei 13 imputati (uno ha fatto ricorso al rito abbreviato). Tre agenti di polizia penitenziaria operanti a Piazzale Clodio in quei giorni di ottobre -Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici-, sei medici -Aldo Fierro, Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Rosita Caponetti, Silvia Di Carlo e Luigi De Marchis Preite- e tre infermieri della struttura “protetta” del Pertini -Giuseppe Flauto, Elvira Martelli, Domenico Pepe-.
 
Nel giugno 2013 la Corte d’Assise presieduta da Evelina Canale mandò assolti gli agenti per non aver commesso il fatto, che venne però riconosciuto e addebitato “in via del tutto congetturale” (queste le parole del collegio giudicante di primo grado) ai Carabineri responsabili dell’arresto. I medici furono condannati per omicidio colposo e gli infermieri anch’essi assolti.
 
La requisitoria di Remus marca oggi una netta discontinuità. Sia nel merito della ricostruzione dei fatti sia nell’approccio nei confronti della vittima e della sua famiglia.
 
Partendo da questo secondo aspetto è bene sottolineare che, a differenza dei due pubblici ministeri di primo grado -Vincenzo Barba e Francesca Loy-, Remus non ha riservato a Stefano Cucchi epiteti del tipo “maleducato”, “cafone”, “scorbutico”, “tossicodipendente da circa venti anni” o “detenuto insopportabile”. Al contrario ha riconosciuto con maggiore delicatezza la sua “magrezza eccezionale”, l’”esile corpo”, le “condizioni fisiche precarie”, il suo esser “scricciolo” “fragilissimo”. Per la famiglia di Stefano è un registro nuovo, purtroppo inusuale. Ne ha preso atto anche Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. “Si respira un clima diverso -le sue parole-, ieri per la prima volta non mi sono sentita sola in un’aula di giustizia. Per un’intera udienza non ho dovuto ascoltare un insulto rivolto a mio fratello. Sembra una banalità dirlo ma è così”.
 
Nel merito il Pg Remus ha criticato nettamente la perizia dei consulenti dell’Università Statale di Milano (tra cui la celebre Cristina Cattaneo, occupatasi anche del caso Gambirasio) incaricati nel maggio 2012 dalla Corte d’Assise in primo grado. Quella stessa perizia che è portò i giudici a indicare quale causa di morte l’“inanizione” -e cioè per fame e sete- e non le lesioni che tutto il Paese ebbe modo di osservare. I periti milanesi riscontrarono infatti a carico delle lesioni un’assoluta “inconsistenza ad interferire negativamente sul piano sistemico” di Stefano.
 
Secondo Remus invece quelle lesioni c’erano. E anche “numerose”. La tesi della “caduta accidentale” è bollata come “non sostenibile” ed il “metodo seguito dalla perizia di dividere le lesioni in categorie” definito fonte di “perplessità”. Un “metodo” inoltre che “oscura l’esame complessivo” e “priva” chi le esamina di “una visione di insieme”. Una “parcellizzazione” che “minimizza la rilevanza di alcune lesioni”. “Elementi che non consentono di aderire supinamente alle conclusioni della perizia”. Sono parole pesantissime quelle di Remus, che riprendono pienamente l’analisi che fece in dibattimento il legale della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo. 
 
La perizia su cui poggia la sentenza di primo grado, del resto, contiene un’altra clamorosa peculiarità, messa in luce nel libro "Mi cercarono l’anima. Storia di Stefano Cucchi" (Altreconomia edizioni) ma che è stata tenuta poco in considerazione dalla cronaca. E cioè che il tecnico radiologo esterno del pool dei consulenti di Milano non ebbe modo di analizzare la documentazione sulla schiena di Stefano Cucchi prima del “taglio settorio” effettuato sulla colonna vertebrale in autopsia e successiva riesumazione. Poté farlo soltanto dopo, sostenendo che le fratture dipendessero dalle operazioni di taglio. Un buco logico che non ha consentito di stabilire con certezza se e quando la martoriata schiena di Cucchi fosse stata spezzata in più punti, se cioè prima o dopo il suo ingresso nelle stanze dello Stato. 
 
Ad ogni modo, secondo la requisitoria di Remus, Stefano Cucchi sarebbe stato picchiato dopo l’udienza di convalida dell’arresto dagli agenti di polizia penitenziaria, perché per il Pg -che lo afferma in termini paradossali, ovviamente- “era giunto il momento di fargli capire come ci si deve comportare in ambiente penitenziario”.
 
Quel che manca nei tasselli messi in fila dal Procuratore è il “nesso causale” tra le lesioni inferte a Stefano e la morte. Quel legame fortemente evidenziato dalla famiglia Cucchi che permetterebbe di contestare agli agenti l’omicidio preterintenzionale.
 
Non avendo rintracciato questo “nesso”, Remus ha chiesto per i tre agenti due anni di reclusione per “lesioni volontarie personali aggravate, ritenuto più grave nella continuazione con il reato di misure di correzione illegali”, per il primario del Pertini -Aldo Fierro- tre anni per omicidio colposo e due anni per Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Silvia Di Carlo e Luigi De Marchis Preite. Anche gli infermieri Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe, assolti in appello “perché il fatto non sussiste”, si sono visti contestare l’omicidio colposo e la richiesta di un anno di reclusione.
 
La prossima udienza è fissata per il 6 ottobre, quando la parola passerà agli avvocati della famiglia di Stefano e poi ai legali degli imputati. “Per ora c’è la volontà di fare chiarezza a 360 gradi -ha dichiarato Ilaria Cucchi-. Non so come andrà finire, ma da un punto di vista umano è un segnale positivo. Finalmente stiamo parlando di un pestaggio che non viene più negato. La requisitoria è stata chiara, dettagliata e terribile. Come un pestaggio di Stato”.

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