Economia / Reportage
Quando la madre terra è curativa: l’agricoltura sociale in Italia
Almeno 2mila aziende agricole nel nostro Paese affiancano all’attività produttiva l’inserimento lavorativo di categorie svantaggiate o soggetti fragili, diventando attori del welfare. Un fenomeno cui lo Stato non presta ancora un’attenzione adeguata
Stefano Montello è un agricoltore friulano sui generis: accanto alla passione per la terra, infatti, coesiste da tempo quella per la musica, declinata attraverso le canzoni del gruppo etno-rock FLK, e quella per la scrittura. Nel 2011, quando un dirigente dell’ambito socio-assistenziale locale lo chiamò per chiedergli se fosse disposto a diventare responsabile di un progetto legato all’agricoltura sociale, la sua reazione fu di sorpresa: “Io, da contadino, ero proprio certo che non esistesse, e che, al di là delle belle parole, fosse ancora tutta da inventare. L’unica cosa che sapevo con certezza -ricorda Montello- era che in quest’avventura avrei avuto come compagni di viaggio dei tipi strani: ex alcolisti, persone in cura nei centri di salute mentale ed altre portate in carico dai servizi sociali”. A distanza di cinque anni quella che era iniziata come un’avventura si è tramutata in una solida realtà, e in un libro, “L’albero capovolto. Le opere e i giorni in una fattoria sociale”, uscito per Bottega Errante Edizioni. La Fattoria sociale Volpares di Palazzolo dello Stella, in provincia di Udine, è oggi “un luogo di rinascita. Un luogo -spiega lo stesso Montello- dove si raccoglie e si accoglie”, che dà lavoro, attualmente, a una decina di ragazzi. “In cinque anni -sottolinea Montello- ne abbiamo ospitati una trentina”. Voluto dall’Azienda per i servizi sanitari n°5 “Bassa Friulana”, dall’Ambito sociosanitario di Latisana, dal Comune di Palazzolo dello Stella, da Ersagricola spa e dal Consorzio di cooperative sociali “Il Mosaico”, questo laboratorio di agricoltura, inserimento lavorativo e cultura è una delle migliaia realtà attive in questo ambito in cui l’economia agricola incontra il sociale, dando vita a un originale ed efficace welfare produttivo.
In fondo le fattorie sociali sono “un’azione locale per una giustizia globale”, come dice Ilaria Signoriello, portavoce Forum nazionale agricoltura sociale, un modo per creare inserimenti lavorativi a favore di persone cosiddette svantaggiate all’interno di un contesto economico agricolo attento alle biodiversità e al biologico.
Nel 2012, l’INEA -Istituto nazionale di economia agraria- stimò un migliaia di progetti di questo tipi attivi in Italia. Nello specifico, c’erano 389 cooperative agricole di tipo B, che impiegavano 3.992 lavoratori dipendenti su tutto il territorio nazionale, per un valore della produzione, al 31 dicembre 2009, stimabile intorno ai 182.025.000 euro. I numeri sono però aumentati nel tempo e oggi, secondo Marco Berardo Di Stefano, Presidente della Rete fattorie sociali, sono “circa 2mila le fattorie sociali”. Il dato reale secondo Ilaria Signoriello “è sicuramente maggiore, anche se è difficile quantificare le dimensioni di un fenomeno molto vario, che raggruppa esperienze molto diverse tra loro”. Entro la fine del 2016 il CREA -Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria- porterà a termine un censimento nazionale completo, anche alla luce della recente legislazione: ha poco meno di un anno, infatti, la legge 141/2015, la prima che affronta il settore in modo organico, anche se questo “mondo” ha iniziato a diffondersi parecchi anni fa.
I primi vagiti di quella che sarebbe diventata l’agricoltura sociale si ebbero già intorno alla fine degli anni ‘70, ad esempio con la cooperativa agricola laziale Capodarco. Occorrerà attendere però il 2001 (e il Decreto legislativo 228 di quell’anno) per vedere riconosciuta ufficialmente la multifunzionalità delle aziende agricole, e cioè un ruolo che va oltre la mera produzione alimentare, e può includere anche servizi educativi e sociali. “In quegli anni si iniziò a parlare di agricoltura civica -ricorda la zooantropologa Roberta Viggiani della Rete delle fattorie sociali dell’Abruzzo ed esperta in onoterapia-: l’agricoltura ‘sociale’ arrivò qualche anno dopo, ma la cosa importante è aver stabilito che il contadino può e deve essere anche produttore di servizi”. Nonostante, come ricorda Di Stefano, “all’inizio pochi sapessero di cosa stessimo parlando, anche all’interno delle istituzioni, l’agricoltura sociale cresce rapidamente e nel 2005 nasce la ‘Rete delle fattorie sociali’: gli operatori stessi che si resero conto della necessità di unire le esperienze e collaborare con associazioni di consumatori, ordini professionali, università, soggetti istituzionali e sigle sindacali agricole”.
“La madre terra non è giudicante: non vede se hai commesso un reato, sei ti manca una gamba o se sei psicotico, vede quanto amore dai” (Ilaria Signoriello)
Alla fine del 2011, la Commissione agricoltura della Camera avvia l’iter di quella che sarebbe diventata la 141/2015, la prima legge nazionale chiamata a regolamentare un fenomeno sociale sempre più diffuso, che fino a quel momento aveva conosciuto interventi legislativi solo in alcune Regioni. “Secondo la legge -spiega Marco Berardo Di Stefano- le fattorie sociali realizzano inserimenti lavorativi di categorie svantaggiate e soggetti fragili ed erogano servizi terapeutici, di ospitalità e riabilitativi a favore di questa categorie, il tutto in un contesto agricolo” e con l’ausilio di animali. Una gamma di obiettivi che spinge Assunta Di Matteo, che con la Rete delle fattorie sociali pugliese programma e progetta queste strutture, a dire che forse si dovrebbe parlare di “masserie multifunzionali per un’inclusione sociale che si realizzi attraverso la promozione della salute mentale, fisica e la riabilitazione”.
A un anno dalla sua promulgazione, avvenuta il 18 agosto 2015, la legge non è ancora stata recepita da tutte le Regioni, e sconta già due ritardi: “La legge -dice il presidente della Rete della fattorie sociali- prevedeva l’emanazione di alcuni regolamenti attuativi, ma al momento non sono ancora stati pubblicati”. Secondo le legge, inoltre, dovrebbe essere istituto uno specifico Osservatorio nazionale che coordini le azioni di tutti i soggetti coinvolti: nonostante i termini previsti siano già scaduti, non si ha ancora traccia di questo organismo.
Questi ritardi non scoraggiano chi nell’agricoltura sociale crede e si muove affinché venga conosciuta sempre di più: “Per noi -conclude Ilaria Signoriello- è molto di più di una pratica agricola, è un nuovo modo di interpretare e costruire una società diversa. È bello vedere delle persone che, in un sistema economico come il nostro, sarebbero considerati ‘scarti’, diventare invece una vera e propria risorsa. La madre terra è curativa e soprattutto non è giudicante: non vede se hai commesso un reato, sei ti manca una gamba o se sei psicotico, vede quanto amore dai e di conseguenza risponde”. Un processo di inclusione che, come sottolinea Assunta Di Matteo, non deve essere lasciato al caso o alla buona volontà, ma “deve essere strutturato grazie a seri protocolli di esecuzione che garantiscano reali benefici”. Benefici che, spiega Stefano Montello, sono reciproci: “È una sorta di terapia biunivoca, nel senso che fa bene sia agli utenti che lavorano con me sia a me. L’unico reddito possibile, o perlomeno, l’unico che mi interessa, è il reddito di umanità, cioè la capacità di gestire il lavoro e la relazione attraverso la cultura del lavoro e la cultura della relazione. La gestione imprenditoriale delle persone con cui lavoro, cioè la loro capacità di produrre reddito, è direttamente proporzionale al loro benessere fisico e mentale. Questo è un limite imprescindibile: se gli utenti stanno bene, sono sereni e si fidano, poi si affidano. Senza di ciò una fattoria si rivelerà poco più che un manicomio a cielo aperto”.
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