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Arrivederci rappresentanza, benvenuta rappresentazione. Così muore la democrazia liberale

Dagli Stati Uniti al Brasile, dall’America Latina all’Europa, la forma politica che ha garantito a lungo la pace e ha permesso un miglioramento delle condizioni di vita in vaste aree del mondo sta diventando residuale. La brutale deregolamentazione dei flussi di capitale e di lavoro sono incompatibili con le dinamiche democratiche. L’analisi di Alessandro Volpi

È ormai evidente che la democrazia liberale affronta una profonda crisi. Subisce infatti un’aggressione costante da parte della presidenza di Donald Trump, che sta costruendo un presidenzialismo sovranista fondato sul rapporto direttamente “social” fra il comandante in capo e il popolo, secondo un modello già largamente adoperato da Putin nella Russia degli ultimi anni. La democrazia liberale è scomparsa in moltissimi Paesi del Pianeta. Dal Brasile di Bolsonaro, alle varie realtà dell’America latina e del Sud-Est asiatico, al continente africano fino al cuore dell’Europa. Dunque, la forma politica che ha garantito a lungo la pace e ha permesso un sensibile miglioramento delle condizioni di vaste parti del mondo sta diventando decisamente residuale. Perché ciò avviene? Le risposte possono essere molteplici, ma tre elementi risultano assai evidenti.

Il primo: la crisi della democrazia liberale si lega alle difficoltà della rappresentanza politica e alla sua rapida delegittimazione. La dura polemica contro la casta, contro le élites, contro i meccanismi della rappresentanza indiretta, per cui il “popolo sovrano” assegnava a un corpo di eletti la tutela dei propri interessi, ha indebolito alla radice qualsiasi ipotesi di investitura istituzionale della classe dirigente, che ha finito per divenire, nell’immaginario collettivo, un ceto politico autoreferente, privilegiato e quindi illegittimo. La democrazia liberale degli eletti ha assunto così i tratti della sopraffazione delle oligarchie nei confronti della vera volontà popolare che ha cominciato a invocare con virulenza la necessità di disporre di leader immediatamente adesivi al “costume” del popolo. Non la rappresentanza, intesa come delega senza vincolo di mandato assegnata con il voto, ma la rappresentazione, concepita come la continua identificazione dei leader con il gusto, con il sentire, con le pulsioni e persino con i modi di essere popolari è diventata l’elemento caratterizzante il linguaggio della politica, costruito, coltivato e diffuso dalle didascalie e dalle immagini dei social.

In questo senso sulla crisi della democrazia liberale hanno inciso due ulteriori elementi costituiti dal ripudio della complessità che proprio i social network hanno trasformato in credo dominante e dall’identificazione delle stesse forme delle democrazie liberali con la globalizzazione neoliberista verso cui ha preso corpo una vera e propria ondata “controrivoluzionaria” in nome della rinascita di Stati sovrani immediatamente qualificabili con la celebrazione di una sovranità popolare assoluta, ostile all’idea stessa di mercato considerata consustanziale con le democrazie liberali. Proprio la globalizzazione ha prodotto un’accelerazione dei processi economici, ha generato un turbocapitalismo, una smaterializzazione in termini finanziari dei fenomeni produttivi che non sono più conciliabili con i tempi delle democrazie liberali. È evidente che le modalità e i ritmi delle nuove economie digitali e la brutale deregolamentazione dei flussi di capitale e lavoro sono incompatibili con dinamiche parlamentari in cui la costruzione del dibattito politico ha bisogno della necessaria decantazione delle decisioni e della loro assimilazione. La narrazione dei partiti tradizionali, che hanno sostenuto il metodo e la sostanza delle democrazie liberali, non può contrastare in tempi ragionevoli la natura fulminea delle trasformazioni economiche e quindi rischia di risultare sempre in ritardo e dunque colpevole di connivenza con la tanto deprecata globalizzazione.

I nuovi sovranismi, in tale ottica, garantiscono un duplice effetto. Da un lato rappresentano attraverso la retorica degli slogan e delle promesse miracolistiche una risposta immediata all’economia globalizzata con l’esaltazione degli interessi delle popolazioni locali, in contrasto netto con i “nemici del popolo”, dall’altro alimentano la definizione in termini totalmente negativi di quei processi di globalizzazione che intendono combattere attribuendo a loro e alle democrazie liberali tutte le colpe possibili. Le democrazie liberali sono state indebolite anche da una radicale riscoperta dell’identità come segno distintivo di appartenenza politica. Il tratto caratterizzante dei populismi è individuabile infatti nella assoluta centralità della celebrazione di una concezione dell’identità che riunisce insieme il sentimento religioso, il familismo escludente, il rifiuto della contaminazione e della mediazione della razionalità rispetto alle pulsioni istintive, la paura delle diversità, la già ricordata negazione delle forme della rappresentanza che costruiscano la distinzione fra popolo ed élites. In questo senso l’identità populista è antistatale e, al contempo, afferma l’idea di uno Stato organicistico, aderente ad una sovranità popolare che si esprime solo con il voto, è nazionalistica assai più che nazionale perché ha bisogno dell’eccesso polemico, dell’individuazione del nemico, è antiparlamentare e costantemente attratta dal ribellismo come forma di opposizione a prescindere rispetto al potere ma anche come paradigma della irresponsabilità. Si tratta di un’identità che fa spesso ricorso al fascino della storia, magari decisamente manipolata, perché ha bisogno di un primato che non è possibile costruire nella contemporaneità reale e deve quindi essere il portato di un’eredità considerata inattaccabile. E’ evidente che in tutto ciò non c’è più spazio per la ragionevolezza della democrazia liberale.

Università di Pisa

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