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Cultura e scienza / Intervista

Chiara Bersani. Il racconto del corpo

© Alice Brazzit

Attrice e performer con disabilità, con il suo spettacolo “Gentle Unicorn” riflette sulla possibilità di riconoscersi, superando gli stereotipi. In costante dialogo con il pubblico

Tratto da Altreconomia 217 — Luglio/Agosto 2019

“Una lunga chiamata”. Definisce così il suo ultimo progetto “Gentle Unicorn”, Chiara Bersani, artista italiana classe 1984, premio Ubu 2018 per il teatro come miglior attrice/performer under 35 (ubuperfq.it). “Gentle Unicorn” (2017), il suo primo assolo, è un lavoro sulla possibilità di riconoscersi superando i pregiudizi, senza moralismi. “Se io, con il mio corpo disabile oggi sono qui, a ricevere un riconoscimento così prezioso, è perché qualcuno da chissà quanti anni ha iniziato lentamente a smussare gli angoli di un intero sistema”, ha detto ricevendo il premio Ubu lo scorso gennaio.

Chiara, quale strumento stai usando per arrivare a riconoscersi gli uni negli altri?
CB La dilatazione del tempo. Io sono una persona lenta che vive in una società dal ritmo veloce; queste mie tempistiche lente -che sono dettate dal corpo, ma hanno contagiato tutto il mio essere umano- hanno sempre creato dei problemi. Penso che sia utile abbracciare la lentezza, anziché fare di più in tempi rapidi. C’è questo fraintendimento per cui la lentezza è intesa come pigrizia. Invece ho capito che un modo per avvicinarmi gradualmente alle persone era provare a condividere con loro un momento profondamente dilatato, con una lentezza che non fa parte del tempo comune. È un tentativo che ne nasconde un secondo: creare un gruppo. Magari estemporaneo, destinato a sciogliersi in breve tempo, alla fine della stessa performance. Ma in quel nostro tempo c’è una lentezza di sguardi riflessi, in cui le persone si guardano tra loro, che attiva una complicità tra i partecipanti.

In “Gentle Unicorn”, infatti, gli spettatori sono illuminati e seduti a forma di ferro di cavallo. Come reagiscono a questa tua proposta d’incontro?
CB Inizialmente il pubblico era seduto frontalmente e io potevo osservare dei movimenti nelle prime file, ma più lontano nient’altro. Poi è venuta l’idea di cambiare la disposizione a ferro di cavallo, per facilitare questo dialogo. La base di partenza dei lavori che faccio è sempre qualcosa che mi fa sentire insicura, domande alle quali non so dare risposta. Non mi è mai piaciuta l’idea che chi parla lo faccia perché ha delle conoscenze e delle risposte più di altri. Anche chi è sul palco viene percepito più in alto: a me, invece, interessa essere alla pari. Da quel momento mi sembra sempre che gli spettatori si trasformino in piccoli investigatori. Nella prima fase del nostro incontro, infatti, prevale il desiderio di capire cosa sta accadendo. Poi, a un certo punto, questa domanda svanisce e le persone iniziano ad avere reazioni più reali: ad accogliere il nostro incontro o rifiutarlo, a commuoversi, ridere o innervosirsi, in modo trasparente. Il gruppo partecipa con me alla performance e si autodetermina a livello emozionale, creando un equilibrio.

“Io sono una persona lenta che vive in una società dal ritmo veloce; queste mie tempistiche hanno sempre creato dei problemi. Credo sia utile invece abbracciare la lentezza, anziché fare di più in tempi più rapidi”

I tuoi progetti esprimono una ricerca politica sui corpi. Un invito a mostrarsi e ad accogliere.
CB Non voglio passare per chi ha delle risposte perché ha un corpo divergente ed esperienze diverse. È  una mia ossessione. D’altra parte, non posso fingere che il mio corpo non sia diverso dalla “norma” e che questo non abbia influenzato la mia vita. Il mio è un tentativo di trovare un dialogo tra queste tendenze opposte. Penso che questo corpo che mi è capitato in fondo sia solo una forma estrema, naturale e molto umana, di qualcosa che possiamo vivere tutti in altre forme. La natura ci rende diversi sempre per alcuni dettagli, che nel mio caso sono più forti, ma che tutti abbiamo vissuto almeno una volta nella vita. Il lavoro con il mio corpo nasce da un’esigenza che i corpi si mostrino, scendano in strada: chi li osserva, indipendentemente da come siano questi corpi, non può fare altro che accettarli e accoglierli, perché sono realtà. Non si salva nemmeno chi è “nella media”: questo è un concetto di statistica e non di umanità.

A luglio Chiara Bersani porterà il suo spettacolo “Gentle Unicorn” al Santarcangelo Festival in Romagna (santarcangelofestival.com) e al festival Drodesera nella Centrale Fies di Dro (TN, centralefies.it). In agosto sarà in Olanda, al Boulevard Festival (festivalboulevard.nl), e all’Edimburgo fringe Festival (edfringe.com)

In occasione del premio Ubu hai condiviso pubblicamente una riflessione sull’importanza di “rendere veramente accessibile la formazione per attori e performer anche a corpi non conformi”. Un appello a uscire dall’idea per cui “uno spettacolo contenente un attore appartenente a una qualsiasi minoranza debba necessariamente affrontare tematiche relative ad essa”.
CB So di appartenere a una minoranza che non sarà mai direttamente attaccata. Ma sono comunque donna e disabile, due gruppi considerati “fragili”. In questo senso, a volte sento una solitudine, sebbene sia molto sostenuta nel mio lavoro. Siamo davvero pochi in Italia gli artisti disabili che vivono di questo lavoro. Facciamo fatica a lavorare nel circuito professionale ufficiale, mentre esistono dei circuiti dedicati alle persone disabili. Questi ultimi svolgono un ruolo sociale fondamentale ed è importantissimo che continuino la loro proposta, ma non esiste in Italia un percorso formativo professionalizzante accessibile a noi e le scuole non sono attrezzate in questo senso. Tuttavia penso che sia importante uscire da questa comfort zone dedicata alla disabilità per muoverci negli spazi dove si formano tutti gli altri nostri contemporanei. È un percorso ancora lungo.

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