Altre Economie
L’equo oltre la crisi
Altromercato punta sul “solidale italiano” per far fronte alla riduzione dei ricavi che colpisce anche le botteghe. Parla il neo-presidente Vittorio Rinaldi —
Difficoltà economiche e una diversa sensibilità dei “consumatori critici” si riflettono sul mondo del commercio equo e solidale, che oggi fa i conti con la crisi e immagina un rilancio, forte dei propri principi e reti di relazioni.
Altromercato -con i suoi 25 anni di storia- è oggi il soggetto italiano di maggiori dimensioni: 118 cooperative e organizzazioni non-profit a formarne la base sociale, circa 300 botteghe a “presidiare” il territorio, e rapporti con oltre 170 organizzazioni del Sud del mondo, formate da decine di migliaia di artigiani e contadini in 50 Paesi.
Dopo esserne stato consigliere per alcuni mandati, lo scorso autunno Vittorio Rinaldi è divenuto presidente di Altromercato (www.altromercato.it), alla guida di un consiglio quasi del tutto rinnovato. 51 anni, bergamasco, antropologo, docente universitario, ha dovuto affrontare un bilancio -i ricavi ammontano a oltre 41 milioni di euro, l’anno fiscale chiude il 30 giugno- in perdita, un serio campanello d’allarme.
“I segnali di flessione delle vendite -spiega Rinaldi- erano apparsi già nel 2012 ed erano stati oggetto di un attento esame nell’estate scorsa, con un’analisi mirata sulle caratteristiche della flessione, sui fattori in gioco e quindi sulle possibili misure correttive da adottare. Quel che subito si era rilevato era un calo generalizzato su più canali, anche se il dato maggiormente significativo per noi era, e resta, il calo di vendita nel canale delle botteghe del mondo, poiché tocca direttamente i nostri soci, cosi come altri soggetti del commercio equo italiano. Alla luce dei risultati autunnali, il nuovo consiglio di amministrazione ha cominciato a lavorare a un piano di contenimento dei costi. Il piano ha praticamente occupato tutti i primi due mesi del nostro mandato: abbiamo comparato la situazione con quella delle annualità precedenti, scandagliato i numeri e alla fine scelto le misure necessarie per contenere i costi. Abbiamo così deciso di comprimere da una parte spese e investimenti ‘non vitali’, e dall’altra abbiamo aperto un tavolo di confronto coi lavoratori del consorzio in vista del ricorso ad ammortizzatori sociali. Dopo due mesi di confronto intensivo coi lavoratori abbiamo concordemente scelto di prendere la via del contratto di solidarietà. Con gli stessi lavoratori abbiamo perciò definito quote percentuali, tempistiche e obiettivi dell’operazione. Dal mese di febbraio il contratto di solidarietà è operativo e si applica a 86 lavoratori, i quali subiscono una riduzione parallela dell’orario di lavoro e del salario del 20%. Pur trattandosi di una scelta certamente non gradevole e indolore, è stata presa e implementata seguendo criteri e principi del fair trade. Di questo ci sentiamo particolarmente orgogliosi, perché abbiamo dimostrato che si può essere equi e solidali anche nei momenti difficili: i posti di lavoro non sono stati messi in discussione, ogni lavoratore ha accettato di fare la sua parte per reggere l’urto della crisi, le scelte sono state democraticamente gestite e compartecipate da società e lavoratori al fine di raggiungere un risparmio complessivo di 500mila euro. Tutto ciò per arrivare alla fine dell’anno fiscale vicini al pareggio di bilancio”.
Questo però prevede che i ricavi non cresceranno.
“Non cresceranno per quest’anno. Ma optando per la linea del risparmio, abbiamo anche deciso con convinzione di procedere all’elaborazione di una strategia di rilancio del consorzio, che vogliamo definire nei suoi cardini portanti entro giugno, in uno scenario di revisione strategica. Al fine di dare nuovo fiato al consorzio vogliamo rivedere il nostro sistema di governance, le nostre politiche commerciali, guardare all’assetto della centrale, alla comunicazione, al rapporto coi produttori. Vogliamo insomma fare una diagnosi a 360 gradi, per poter costruire una stagione di ripresa, sia sotto il profilo delle vendite sia sotto il profilo della capacità di comunicazione pubblica dei valori e dei messaggi caratterizzanti il commercio equo e solidale. Anche in questo caso la cosa da sottolineare è che si tratta di un processo che condivideremo in maniera pienamente democratica e partecipativa con la base sociale del consorzio”.
Quali interventi immaginate sulla governance? E rispetto alle scelte commerciali?
“Rispetto al tema della governance stiamo ragionando su possibili strumenti utili a favorire i processi di aggregazione tra le botteghe, quali il contratto di rete e il gruppo cooperativo. Strumenti che non obbligano necessariamente le cooperative a ‘fondersi’ in un’unica società, ma permettono l’instaurarsi di significative e proficue sinergie operative tra organizzazioni locali.
Un’altro dei capitoli fondamentali per il nostro rilancio è quello della comunicazione: puntiamo a rivitalizzare la dimensione politico-culturale del nostro agire; vogliamo dimostrare capacità di trasmettere valori e suscitare passioni intorno ai temi della giustizia sociale e dell’economia socialmente e ambientalmente responsabile anche in un contesto, quello odierno, profondamente mutato rispetto a 25 anni fa.
Ma il punto più rivoluzionario rispetto al passato di cui stiamo discutendo è probabilmente quello del cosiddetto ‘domestic fair trade’, vale a dire il tema del coinvolgimento nel nostro sistema commerciale di produttori italiani del settore agricolo e artigianale (come mostra l’articolo di p. 32, ndr). Pensiamo a chi produce sulle terre confiscate alla mafia, ma anche alle realtà agricole dell’Appennino o delle valli Alpine spopolate, dove sussistono molte realtà produttive con caratteristiche simili a quelle dei nostri produttori tradizionali del Sud del mondo. In funzione della commercializzazione dei prodotti elaborati da agricoltori e artigiani italiani svantaggiati puntiamo a sviluppare il marchio ‘Solidale italiano’. È una grande scommessa, attorno alla quale vogliamo motivare tutto il movimento del commercio equo ma anche saldare partnership con i principali soggetti che in Italia si occupano di agricoltura, terra, produzioni sostenibili, economie responsabili. Penso a realtà come Slow Food, all’Aiab e a Libera. Per lanciare questa scommessa a breve scriveremo un vero e proprio ‘Manifesto del solidale italiano’ che presenteremo pubblicamente. Puntare sul ‘domestic fair trade’ sarà perciò uno dei cardini del nostro riposizionamento strategico. Ovviamente questo non vorrà dire in alcun modo dimenticare la nostra mission storica nei confronti dei produttori del Sud del mondo”.
Agices (Assemblea generale italiane del commercio equo e solidale), che rappresenta gran parte dei protagonisti del fair trade italiano, comprese le altre centrali di importazione, ha cominciato una seria riflessione sulle prospettive del commercio equo e solidale.
“Dobbiamo condividere con Agices il percorso di sviluppo del commercio equo in Italia e consideriamo importante che i soggetti lì riuniti condividano anche i criteri sul ‘domestic fair trade’. Individuiamo infatti in Agices (agices.org) il luogo ove trovare la sintonia con le altre centrali di importazione, in un rapporto di mutua collaborazione e riconoscimento. È negli interessi di tutti la maggior sinergia possibile. Il che vuol dire forme di partnership di natura non solo istituzionale o culturale, ma anche commerciale. La coesione tra gli attori di Agices è fondamentale, per dare alla società italiana l’immagine di un commercio equo unito e coerente. Come sta accadendo, del resto, con l’introduzione del marchio di certificazione della World Fair Trade Organization (Wfto, www.wfto.com). A livello nazionale, infatti, siamo vicini alla comparsa di un nuovo marchio, frutto di un processo di certificazione delle organizzazioni di commercio equo e solidale che abbiamo pienamente condiviso con Agices”. —