Diritti / Opinioni
L’Italia nera che si specchia nelle curve
Il pesante clima generale del Paese rende la questione del razzismo negli stadi ancor più importante e delicata di un tempo. La rubrica di Lorenzo Guadagnucci
In un Paese appassionato di calcio come l’Italia, quanto avviene negli stadi è spesso metafora e anticipazione di fenomeni sociali più generali. Non a caso l’attenzione della politica è altissima, fin dall’epoca di Mussolini, che usò lo sport per fortificare lo spirito nazionalista degli italiani e la loro adesione ai “valori” del fascismo. In tempi più recenti spicca l’utilizzo del lessico calcistico da parte di Silvio Berlusconi, prima presidente del Milan poi presidente del Consiglio: dalla “discesa in campo” al grido da tifosi “Forza Italia” scelto come nome del suo partito.
Tuttora l’interesse politico per gli stadi è altissimo. Fra dicembre e gennaio è riesploso il caso del razzismo nel calcio. Il calciatore franco-senegalese Kalidou Koulibaly è stato lungamente insultato durante una partita a Milano e si è discusso se l’arbitro non avrebbe fatto meglio a sospendere per qualche minuto il gioco, in modo che i calciatori (e la gran parte del pubblico) potessero esprimere la ferma condanna dei cori insultanti. In breve si sono formate due fazioni. Una chiede che in casi del genere le partite siano fermate, l’altra ritiene che non si debba arrivare a tanto, “per non mortificare la maggioranza degli spettatori”. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini, solitamente sostenitore del pugno duro, stavolta ha preso le distanze da chi chiede interventi a partita in corso, derubricando i cori contro i calciatori neri a semplici eccessi del tifo. Il ministro ha insomma difeso gli ultrà -suo probabile bacino elettorale- e allontanato da loro il sospetto di istigazione all’odio, accusa che peraltro pende, per altri questioni, sul suo stesso capo.
Il fronte opposto a Salvini è sostenuto soprattutto da Carlo Ancelotti, allenatore di Koulibaly al Napoli e tecnico di larga esperienza all’estero: secondo lui, certi comportamenti vanno condannati subito con gesti plateali come lo stop alla partita. Siamo davanti a un caso politico da valutare tenendo conto che negli stadi e con gli ultrà vengono spesso collaudati interventi di portata generale. È accaduto con i Daspo e con la cosiddetta flagranza differita: misure limitative della libertà personale inizialmente giustificate con la specificità della violenza nel calcio e poi estese ad altre situazioni.
Un tema oggi centrale è il discorso d’odio, dilagante nei social media, largamente praticato nel mondo politico, poco contrastato dai media mainstream, come segnala l’ultimo rapporto di Carta di Roma, l’associazione che segue l’attuazione del codice deontologico dei giornalisti su immigrati e minoranze. Qualche anno fa fece scalpore il gesto della squadra di calcio del Treviso: dopo gli insulti ricevuti da un giovane calciatore di pelle nera, tutti i componenti della squadra, alla partita successiva, si presentarono in campo con la faccia dipinta di nero. Una presa di parola, un gesto forte di contrasto all’odio. Protagonisti di altri gesti clamorosi sono stati via via Mario Balotelli, Kevin-Prince Boateng, Sulley Muntari e qualche altro. Oggi, visto il pesante clima generale, la questione del razzismo negli stadi è ancora più importante e delicata di un tempo.
23. Le persone morte dal 1963 a oggi per la violenza nel calcio, dentro e fuori gli stadi. L’ultimo è Daniele Belardinelli, nel dicembre scorso
Tutto quanto avviene negli stadi ha un’eco mediatica enorme, perciò i calciatori (e gli allenatori, e gli arbitri) possono reggere il confronto con quei comunicatori consumati e di potere che hanno diffuso e radicato il discorso d’odio nella sfera pubblica del nostro Paese. È una sfida etica, culturale e politica che gli sportivi non dovrebbero evitare.
Lorenzo Guadagnucci è giornalista del “Quotidiano Nazionale”. Per Altreconomia ha scritto, tra gli altri, i libri
“Noi della Diaz” e “Parole sporche”.
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