Diritti / Attualità
Caccia alle Ong: dov’è finita l’umanità? La testimonianza di un medico senza frontiere
Come conferma l’ultima inchiesta della Procura di Catania sulla nave Aquarius, l’acronimo “Ong” è diventato sinonimo di banditismo, esposto a ogni forma di criminalizzazione mediatica e giudiziaria. “Smettetela di fare la Ong”, scrivono alcuni a MSF. Come resistere? “Dobbiamo ripartire dalle parole e combattere questa insidiosa guerra civile culturale”, scrive Luigi Montagnini
Come stanno a casa loro coloro che cercano di raggiungere l’Italia attraversando il Mediterraneo a rischio della loro vita? Male. Stanno male. Vivono in Paesi dove ci sono guerre, persecuzioni, epidemie, carestie, povertà, esclusione sociale, mancanza di lavoro e assenza di prospettive per sé e per i propri cari.
È quello che cerco di spiegare quando mi invitano per raccontare le mie esperienze con Medici senza Frontiere in qualche incontro, in una scuola o in una comunità. Ho sempre condiviso tutti i principi umanitari di MSF, compreso quello della témoignage, la testimonianza. Lo considero fondamentale. In genere parlo delle situazioni che ho visto in modo generico, raccontando la situazione sanitaria di una popolazione piuttosto che di un singolo. Mi sembra sempre poco dignitoso mostrare in pubblico – che si tratti di una fotografia piuttosto che di una narrazione – la sofferenza di un uomo, di una donna o di un bambino.
Mi rendo però conto, d’altra parte che dare un volto e un nome ai propri racconti è importante, perché aiuta a ricordare che stiamo parlando di persone uguali a noi. È sulla nostra capacità di identificarci che si costruisce la convivenza sociale. Questa capacità di immedesimarci però è qualcosa che esiste indipendentemente dalla narrazione, perché la narrazione, anche quando puntuale e appassionante, può non riuscire a farsi strada e a coinvolgere le persone tempestate da messaggi semplicistici e assordanti, soprattutto se queste non conservano una curiosità di base verso tutto ciò che è umano. La tentazione di sfuggire alla complessità infatti riguarda tutti noi, così come tutti noi abbiamo la responsabilità di cercare la verità. Io non sono capace di parlare per slogan, non voglio farlo, preferisco suggerire che suggestionare. C’è sempre stato chi semplifica, chi ha le risposte pronte per spiegare ogni fenomeno, che non prova vergogna nell’infarcirle di falsità, pur di far apparire come ineluttabile anche una soluzione disumana a coloro che a quella soluzione mai avrebbero aderito. Oggi però chi mente ha enormi potenzialità di amplificare il proprio messaggio attraverso i social media e con poche affermazioni di grande effetto può inaridire qualsiasi fiore di compassione.
Grace è una bimba nigeriana che ho curato in un ospedale italiano. Una bimba nata in Italia da una coppia di giovani nigeriani, Jeraldine e Moses, che hanno raggiunto il nostro Paese attraversando il deserto prima e il mare poi. Gli è stato riconosciuto l’asilo politico e sono stati accolti in una comunità. Qui è nata Grace. Un brutto incidente domestico l’ha costretta a trascorrere, a pochi mesi di vita, molte settimane in ospedale. Da alcuni operatori sanitari Grace viene chiamata “cioccolatino”. Grace non è un cioccolatino, è una bimba. Lo si può far apparire per vezzeggiativo, ma è l’anticamera, dolce, del razzismo. Non si tratta una quisquilia semantica, è un principio di dignità: è nel corretto uso delle parole che si cela la difesa della compassione. Chi chiama “cioccolatino” una bimba nigeriana e chi vorrebbe che si lasciassero morire i naufraghi in mezzo al mare sono uniti da un unico filo. È lo stesso filo che lega chi sceglie di non sostenere più economicamente MSF perché prima ci prendevamo cura dei sofferenti in qualsiasi contesto di crisi, ora invece – ci scrivono – “fate politica”. C’è perfino chi ci scrive “smettetela di fare la ONG”, perché grazie all’opera di qualche magistrato in cerca di visibilità, l’acronimo “Ong” è diventato sinonimo di banditismo. C’è chi riesce sempre a scaricare le colpe dei problemi che stritolano i Paesi dell’Africa subsahariana sui suoi abitanti: “sono in troppi perché fanno figli a raffica”, “sono selvaggi sempre in guerra tra di loro”, “hanno enormi risorse ma sono corrotti”, senza ricordare e senza scandalizzarsi dei danni coloniali e neocoloniali che abbiamo creato.
“È finita la pacchia”, l’espressione rivolta dal nostro ministro degli Interni ai migranti in cerca di sicurezza è prima che una frase razzista, immorale e becera, un’affermazione falsa, perché già prima dell’insediamento di questo Governo i profughi nel nostro Paese non hanno mai goduto di privilegi o facilitazioni a svantaggio dei cittadini italiani. Anzi, molti sono stati vittime del nostro sistema di accoglienza inadeguato o delle truffe organizzate ai danni di migranti e dello Stato da strutture alberghiere improvvisate e da cooperative prive di qualsiasi formazione. Quello che c’è di certo è che chi viene salvato in mezzo al mare non ha la minima idea di che cosa sia una “pacchia”. Ci sono persone che già sanno, a cui raccontare una storia non aggiunge nulla alla loro compassione, e persone che negano, e che la mia storia non la ascolteranno neppure, perché troveranno sempre qualche ignorante pronto a sconfessarla senza avere alcuna fonte attendibile.
Le persone che già sanno sono quelle che vorrebbero conoscere le storie di chi scappa dalla miseria e dalla violenza. Hanno il desiderio di capire e sono grate a chi può dare loro elementi di interpretazione. Non serve che vogliano accogliere in casa loro Jeraldine e Moses. Si sentono parte di una comunità e sanno che la loro comunità ha le risorse per farsi carico in modo dignitoso dell’accoglienza e dell’integrazione di Jaraldine e Moses. Queste persone che già sanno non hanno bisogno dei dettagli della vita di Jeraldine o di Moses per tendere loro la mano.
Le persone che negano invece vivono di particolari, come lo smalto sulle unghie di una povera donna salvata in extremis dall’annegamento. Sono i dettagli meschini che danno loro la presunzione di avere capito tutto, l’alibi per negare l’evidenza e indossare gli abiti di patrioti. A queste persone non interessa capire. La paura impedisce loro di considerare anche solo per un istante che cosa significhi la disperazione di chi fugge. Non c’è cifra o storia che possa suscitare in loro la solidarietà. Probabilmente se Jeraldine fosse rimasta in Nigeria l’avrebbero sventrata con il machete. Moses sarebbe morto insieme ad altre decine di civili in un bombardamento dell’esercito nigeriano condotto contro le milizie di Boko Haram. Grace sarebbe bruciata nella sua capanna mentre gli estremisti appiccavano il fuoco al suo villaggio.
E se invece Jeraldine e Moses non fossero fuggiti dalla guerra? Cambierebbe davvero la nostra compassione sapere che Jeraldine è scappata da una probabile morte per parto (in Nigeria muore una donna ogni 13 minuti per complicanze legate alla gravidanza)? O scoprire che Moses ha visto morire suo fratello, ammalato, che è stato scaraventato giù dal camion con cui stava attraversando il deserto per raggiungere il mediterraneo alla ricerca di un lavoro? Immaginare che se Grace fosse nata a Gwoza, anziché a Milano, e fosse sopravvissuta al parto, alla malnutrizione, alla diarrea, alla polmonite, al morbillo e alla malaria, si sarebbe ammalata di Noma, un’infezione del cavo orale che distrugge la faccia dei bambini in quella parte di Africa?
Però nessuno si scandalizza se un imprenditore italiano decide di investire in un’attività in Senegal. Consideriamo normale che un nostro giovane vada a cercare lavoro a Londra. Moses e suo fratello sarebbero venuti volentieri in Europa con un aereo, ma nessuno gli avrebbe mai fatto un passaporto. Loro non hanno avuto scelta. Noi continuiamo a scegliere le risposte facili. Dobbiamo ripartire dalle parole e combattere questa insidiosa guerra civile culturale chiamando le cose col loro nome, iniziando da quella che unisce tutti noi: umanità.
Luigi Montagnini è un medico anestesista-rianimatore che da diversi anni collabora con Medici senza Frontiere. Cura una rubrica su Altreconomia.
Questo contributo è tratto dal libro “Alla deriva. I migranti, le rotte del Mar Mediterraneo, le Ong: il naufragio della politica, che nega i diritti per fabbricare consenso”, pubblicato da Altreconomia a settembre 2018.
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