Opinioni
Dietro la riforma della pubblica amministrazione
È lecito auspicare un intervento che freni lo strapotere della burocrazia, ma la legge delega del governo Renzi presenta forse un’architettura troppo complessa per garantirne l’efficacia. In particolare i nodi sono tre, e riguardano il rapporto con la riforma delle Camere e il riordino delle Province, le "deleghe" su società partecipare e impiego pubblico e l’inserimento di aspetti troppo specifici guidati solo da una logica di tagli
La burocrazia italiana ha costituito, storicamente, uno dei grandi problemi del nostro Paese. Superata la breve fase dei governi della Destra storica, subito dopo l’unificazione, quando ha rappresentato una spinta alla modernizzazione, già dalla metà degli anni Ottanta dell’Ottocento ha iniziato a ripiegarsi su se stessa, adottando pratiche e consuetudini che sono sopravvissute a Giolitti, al fascismo, alla prima e alla seconda Repubblica; una connaturata tendenza a muoversi con estrema cautela, troppo spesso al limite dell’immobilismo, una sostanziale predilezione per la continuità amministrativa, certo favorita dagli impianti normativi assai rigidi nel tempo, un rapporto con la politica caratterizzato da una reciproca “dipendenza”, che forse neppure la riforma Bassanini è riuscita a cancellare.
A lungo la difficile selezione della classe politica, in termini di qualità, ha reso i dirigenti e i funzionari praticamente indispensabili, finendo per attribuire loro anche una dimensione di indirizzo politico. Al contempo, questo grande peso dei burocrati ha contribuito non poco a ingessare la politica quantomeno quella delle amministrazioni ministeriali e periferiche. Ora, arriva al Senato la legge delega sulla pubblica amministrazione, fortemente voluta dal governo Renzi e assai pubblicizzata. Si tratta di un’architettura complessa, in quanto il disegno di legge contiene ben undici deleghe, tre delle quali destinate a redigere altrettanti testi unici di aggiornamento. Dunque, un’operazione molto impegnativa, anche sul piano dei tempi, che contiene però diverse norme subito applicabili, volte a modificare alcuni profili di quella storia a cui si faceva riferimento in apertura.
Un ruolo significativo riveste l’affermazione, già nell’articolo primo del testo in questione, della cittadinanza digitale, che dovrebbe abbattere le barriere fisiche all’accesso di tutti alla pubblica amministrazione, consentendo l’utilizzo della rete per realizzare una vera democrazia dei servizi ed una reale conoscibilità degli atti.
Nella stessa logica della sburocratizzazione e della drastica riduzione dei tempi delle procedure si muovono due altri aspetti, costituiti dalla volontà di limitare l’obbligatorietà del ricorso alle conferenze di servizi, che non di rado risultano pleonastiche, e dall’abbattimento del numero dei decreti attuativi necessari per rendere efficaci le riforme già varate negli ultimi tre anni. Forse ancora più rilevanti sono le norme sui dirigenti pubblici che, finalmente, diventeranno licenziabili qualora non utilizzati e saranno sottoposti a tetti stipendiali.
È qui, soprattutto nei ministeri, che allignano titolari di stipendi assolutamente improponibili su cui è possibile davvero operare tagli in grado di garantire risparmi importanti. In questo senso la legge delega apre un orizzonte culturale nuovo, fondato sul merito, sulla competenza e sul definitivo abbandono degli avanzamenti automatici.
Permangono tuttavia tre aspetti che meriterebbero una maggiore attenzione:
1) La fondamentale riforma della pubblica amministrazione avviene in un momento assai turbolento, con il travagliato iter del riordino delle Province ancora in pieno corso e con la rivoluzionaria riforma della contabilità pubblica in regime di adozione. Tutto questo sta compiendosi mentre è ormai consumato il superamento del bicameralismo con un Senato che non è più l’immaginata Camera delle autonomie e con un’inevitabile necessità di ripensamento del ruolo delle Regioni; è vero che sulla riforma della pubblica amministrazione siamo in ritardo e serve correre, tuttavia le partite in campo sono davvero molte e nelle mani di un Parlamento con una maggioranza assai anomala.
2) Le legge sulla pubblica amministrazione prevede, come detto, un gran numero di deleghe, tre delle quali su temi molto pesanti e costituiti dal regime delle società partecipate, dei servizi pubblici locali e del pubblico impiego; per molti versi una ridefinizione radicale del ruolo dei Comuni. Il timore è che il disegno complessivo della riforma, al di là dei singoli importanti, provvedimenti, possa risultare meno efficace per i tempi lunghi della sua realizzazione, già condizionati ai pareri della Corte dei Conti, del Consiglio di Stato e della Ragioneria generale dello Stato.
3) Per quanto condivisibile nei principi ispiratori, non è ben chiaro l’inserimento nella delega di aspetti più specifici come il dimezzamento del numero delle Camere di Commercio e l’abolizione del corpo forestale. Il rischio, in questo caso, è quello di dilatare l’idea stessa di pubblica amministrazione ad ambiti non immediatamente riconducibili ad essa, facendo del testo in questione un omnibus dove il denominatore comune sarebbe riconducibile solo ai tagli.
* Alessandro Volpi, Università di Pisa