Diritti / Attualità
Obiettivi di sviluppo sostenibile: il 2030 è dietro l’angolo. Ma siamo tutti in ritardo
Anche l’Italia è indietro: la sua “strategia nazionale” approvata formalmente solo lo scorso 22 dicembre. È tempo di bilanci
“Siamo decisi a liberare la razza umana dalla tirannia della povertà e vogliamo curare e salvaguardare il nostro Pianeta. Siamo determinati a fare i passi audaci e trasformativi che sono urgentemente necessari per portare il mondo sulla strada della sostenibilità e della resilienza. Nell’intraprendere questo viaggio collettivo, promettiamo che nessuno verrà trascurato”. Il 25 settembre 2018 saranno trascorsi tre anni dall’adozione dell’“Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile” da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. L’incedere è ambizioso, in larga misura trionfalistico, e l’Agenda 2030 non è certamente esente da critiche, anche severe (come vedremo più avanti), specie riguardo alla sua impostazione tutta sbilanciata sul protagonismo del settore privato, ormai posto sullo stesso piano di quello degli Stati e delle organizzazioni internazionali. Sta di fatto che rappresenta un documento politico e programmatico di respiro globale che ha messo sul tavolo temi reali, urgenti e drammatici. Ed è tempo di bilanci. Il preambolo della risoluzione (la A/RES/70/1) annunciava solennemente 17 obiettivi -i Sustainable Development Goals, SDGs-, suddivisi in 169 traguardi -i “target”- misurati attraverso più di 200 indicatori aggiornati progressivamente. “Gli Obiettivi e i traguardi -proseguiva- stimoleranno nei prossimi quindici anni interventi in aree di importanza cruciale per l’umanità e il Pianeta”.
Povertà, fame, salute, istruzione, parità di genere, acqua pulita e sicura, servizi igienico-sanitari, energia, lavoro dignitoso, innovazione, disuguaglianze, città sostenibili, consumo e produzione responsabile, cambiamenti climatici, biodiversità negli oceani e sulla terra, pace e partnership globali. I 193 Paesi “firmatari”, dichiarando d’esser mossi unicamente dall’interesse dei “popoli che serviamo”, assicuravano sforzi e promettevano “soluzioni integrate” per ciascun cerchio rosso dell’agenda. “Trasformare il nostro mondo” era lo scopo, con la libertà garantita a ciascun governo di “decidere come questi obiettivi ambiziosi e globali debbano essere incorporati nei processi, nelle politiche, e nelle strategie di pianificazione nazionale”. Responsabilità dei singoli Stati, visione integrata. I 17 Obiettivi, infatti, devono essere necessariamente “interconnessi e indivisibili” per bilanciare “le tre dimensioni dello sviluppo sostenibile: la dimensione economica, sociale ed ambientale”. Non è un caso che accanto all’adozione dell’Agenda 2030, siano giunti tra gli altri anche l’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici o la Convenzione quadro di Sendai sulla riduzione del rischio catastrofi.
Non raggiungeremo l’obiettivo “Fame zero” entro il 2030: oggi gli affamati sono ancora quasi 800 milioni, 52 milioni i bambini sottopeso
Oltre a essere integrati, gli Obiettivi devono essere monitorati. Non è una cosa banale data la mancanza di dati di riferimento condivisi per numerosi traguardi o immediatamente applicabili da Paese a Paese. Dal suo lancio, in ogni caso, l’Agenda è oggetto di un aggiornamento che prende anche la forma di un “SDGs Report”. Obiettivo per obiettivo, target per target.
Si prenda il primo “Goal”: “No poverty”, porre fine ad ogni forma di povertà nel mondo. Si parte dall’analisi del contesto. Al di sotto della soglia di povertà internazionale fissata convenzionalmente a 1,90 dollari al giorno, al 2013, vivevano quasi 800 milioni di persone. Oltre un abitante del Pianeta su dieci, specialmente in Asia meridionale e nell’Africa Sub-Sahariana. Solo il 45% della popolazione mondiale può contare su una forma di protezione sociale, mentre nel 2016 erano 32 su 100 i ritirati dal lavoro sprovvisti di una benché minima pensione (in Africa Sub-Sahariana la percepisce appena il 22% dei potenziali beneficiari). Non solo. “Le perdite economiche dovute ai disastri naturali raggiungono attualmente una media di 250-300 miliardi di dollari all’anno -si legge nel SDGs Report del 2017-. […] I Paesi più piccoli e vulnerabili, in particolare i piccoli Stati insulari in via di sviluppo, avranno un impatto sproporzionato rispetto alle dimensioni delle loro economie”. Fotografata la realtà attraverso gli indicatori, entro dodici anni bisognerà quindi “ridurre almeno della metà la quota di uomini, donne e bambini di tutte le età che vivono in povertà in tutte le sue forme, secondo le definizioni nazionali” (è uno dei target), “assicurare che tutti gli uomini e le donne, in particolare i più poveri e vulnerabili, abbiano uguali diritti alle risorse economiche” o “ridurre la loro esposizione e vulnerabilità ad eventi climatici estremi, catastrofi e shock economici, sociali e ambientali”.
Nella lista di quel che dovrebbe esser “cancellato” da qui a 12 anni c’è anche la fame: “Zero hunger”. Salita impervia considerando che nel triennio 2014-2016 erano ancora 793 milioni gli individui in stato di denutrizione. E che da stime del 2016 risultavano intorno ai 155 milioni i minori sotto i cinque anni la cui crescita sarebbe stata bloccata per cause legate alla malnutrizione; 52 milioni i bambini sotto peso per la loro altezza (“Wasting”) e 41 milioni quelli in condizioni opposte (“Overweight”). Di questo passo, ha riconosciuto l’Onu nel report sugli SDGs 2017, il mondo “non raggiungerà l’obiettivo della fame zero entro il 2030, nonostante i notevoli progressi compiuti dal 2000”.
Anche in tema di salute (il terzo Goal) le notizie non sono buone. “Nel 2015 -si legge nel report 2017 sugli SDGs-, il tasso di mortalità dei bambini sotto i 5 anni in tutto il mondo era di 43 decessi per 1.000 nati vivi, con una riduzione del 44% rispetto al 2000. Ciò si traduce in 5,9 milioni di decessi […]. Nonostante i progressi compiuti in tutte le regioni, persistono ampie disparità. L’Africa subsahariana continua ad avere il più alto tasso di mortalità tra i bambini al di sotto dei 5 anni, con 84 decessi ogni 1.000 nati vivi nel 2015- circa il doppio della media mondiale”. Al sesto posto c’è la necessità di garantire a tutti “la disponibilità e la gestione sostenibile dell’acqua e delle strutture igienico-sanitarie”. Anche ai due miliardi di individui che al mondo versano in una condizione di “stress idrico” o agli 892 milioni di esseri umani che nel 2015 defecavano ancora all’aria aperta.
610 miliardi di dollari, la spesa militare degli USA nel 2017. È il 35% dell’ammontare globale
Per questi e tutti gli altri Obiettivi l’approccio adottato dalle Nazioni Unite è quello della “soluzione”. E questa lettura è stata talmente acquisita che nell’ultimo triennio sono stati organizzati presso il quartier generale dell’Onu a New York eventi internazionali intitolati addirittura “Solutions Summit”. Dove al centro è posto il raggiungimento di un traguardo tecnico prima ancora dell’analisi del contesto politico, economico, di modello di sviluppo. “Sebbene tutto ciò possa catalizzare il dibattito e stimolare coloro che sono coinvolti negli SDGs ad agire -ha annotato Katerina Gladkova del centro di ricerca Transnational Institute (TNI, tni.org)-, è pur vero che questo oscura le opportunità che guardano al di là di un discorso meramente normativo in merito alla soluzione di quei problemi”. Gli SDGs, infatti, dovrebbero essere “strumenti di governance” e in quanto tali “aperti all’interpretazione”, anche critica. La riflessione di Gladkova è riassunta in un titolo efficace: “La soluzione per implementare gli SDGs? Non pensarli in termini di soluzione”. Semmai coglierli come occasione per affermare modalità alternative di governance, partecipazione, coinvolgimento delle società civile, uso delle risorse e modelli di sviluppo.
Lo sa bene Nicoletta Dentico, vicepresidente della Fondazione Finanza Etica, già direttrice di Medici Senza Frontiere in Italia e coordinatrice della coalizione “Democratising Global Health” (DGH) che punta a una riforma profonda dell’Organizzazione mondiale della Sanità. Dentico è protagonista e osservatrice attenta della cooperazione internazionale, soprattutto nel campo della salute, e frequenta spesso le sedi delle Nazioni Unite a Ginevra. Ed è proprio al Palais des Nations quando la raggiungiamo a metà maggio per chiederle un bilancio a quasi tre anni dal lancio degli SDGs. È seduta a uno dei tavoli del gruppo di lavoro intergovernativo (Open ended inter-governmental working group) che dal 2014 sta cercando di dar seguito al difficilissimo mandato di negoziare una regolamentazione vincolante per le imprese multinazionali in tema di diritti umani. “Gli SDGs sono una grandissima e per certi versi importante operazione di comunicazione di un orizzonte globale, in perfetta continuità con gli Obiettivi del Millennio -spiega Dentico-. Il che ha un valore intrinseco positivo e di mobilitazione delle coscienze. Ma tutto questo non può distrarre da un fatto oggettivo: i capi di Stato hanno costruito un sistema molto complesso e articolato che poggia su una struttura di responsabilità fragile, volutamente indebolita e in depressione costante”. Dentico si riferisce al ruolo di guida della funzione pubblica, minacciato da quello che definisce il “peccato originale” dei 17 Obiettivi lanciati nel 2015. “Dall’inizio del secolo -continua- si è affermato un nuovo paradigma di gestione del mondo caratterizzato da partenariati pubblico privati, che stanno ridefinendo totalmente gli assetti della governance globale. La presenza dei privati, ovvero le grandi multinazionali, dentro i forum internazionali chiamati a individuare e promuovere politiche pubbliche globali per affrontare i problemi del Pianeta è ormai istituzionalizzata. Soprattutto presso le Nazioni Unite”.
È l’ultimo Goal: “Rafforzare gli strumenti di attuazione e rinnovare il partenariato mondiale per lo sviluppo sostenibile”. Uno dei suoi target punta a “Incoraggiare e promuovere partnership efficaci nel settore pubblico, tra pubblico e privato e nella società civile basandosi sull’esperienza delle partnership e sulla loro capacità di trovare risorse”. Gladkova ha bollato questo coinvolgimento come un “esercizio di democrazia di facciata”, ricordando come già nell’aprile 2016 il Global Water Justice Movement avesse spedito una lettera aperta all’allora segretario generale dell’Onu -Ban Ki-Moon- dichiarando la propria preoccupazione in merito alle strategie di privatizzazione riproposte dalla Banca Mondiale in attuazione del sesto Obiettivo. “Non sono certo una sostenitrice di un modello statalista vecchio stampo -chiarisce Dentico- e sono perfettamente consapevole che gli attori privati siano importanti e sia per loro immaginabile un ruolo. Il punto però è che questo meccanismo funziona in un contesto completamente asimmetrico, dove le regole del gioco non sono affatto chiare. Faccio un esempio: le Nazioni Unite, promotrici degli SDGs, sono totalmente sguarnite di una strumentazione che possa regolamentare i fortissimi conflitti di interesse tra gli interlocutori seduti ai tavoli. E in tema di contrasto all’elusione fiscale delle grandi aziende, come noto, siamo ancora al palo”.
0,7% della popolazione mondiale detiene il 45,9% della ricchezza globale misurata da Credit Suisse nel 2017
Dentro questa cornice si sta muovendo anche l’Italia. A fine 2016 è stata elaborato il “Posizionamento dell’Italia rispetto all’Agenda 2030” e successivamente avviato un processo di consultazioni multilivello. Poi è stata predisposta una prima “Proposta” di Strategia nazionale, giunta all’attenzione del Foro politico di alto livello dell’Onu nel luglio 2017. E soltanto il 22 dicembre dello scorso anno, il Comitato interministeriale per la programmazione economica (Cipe) ha approvato ufficialmente la “Strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile”, con tanto di strumenti, obiettivi, aree tematiche principali e indicatori che “dovranno essere selezionati per monitorare lo stato di attuazione della Strategia”. Sulla prima pagina del documento approvato dal Cipe c’è il logo del ministero dell’Ambiente, a sottolineare l’approccio del Governo allora in carica rispetto al tema della sostenibilità. Una visione “ristretta” alla sfera ambientale che l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS), nata il 3 febbraio del 2016 e oggi composta da 180 “tra le più importanti istituzioni e reti della società civile”, ha criticato dall’inizio. Non per demeriti del singolo ministero, quanto per la necessaria attenzione da rivolgere anche a materie diverse. Ed è per questo che solamente il 16 marzo 2018, mentre il dibattito pubblico era concentrato sull’esito elettorale, il Consiglio dei ministri ha approvato una “direttiva” dell’allora presidente Gentiloni recante gli “Indirizzi per l’attuazione dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite e della Strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile”. Il ritardo evidente del ceto politico nel dare forma, sostanza e contenuti alla struttura nazionale non va esteso a tutte le realtà impegnate sull’Agenda 2030. L’ASviS, infatti, è un pungolo efficace per le istituzioni. Ogni anno pubblica un dettagliato rapporto sulla “performance” italiana -nell’edizione 2017 ha certificato “distanze molto ampie” dell’Italia nei confronti degli altri Paesi europei nonché “forti disuguaglianze territoriali, socio-economiche e di genere”- e un Festival ad hoc che quest’anno si è sviluppato nell’arco di 17 giorni, tanti quanti gli SDGs (dal 22 maggio al 7 giugno).
6,5% quota di popolazione over 16 che non ha effettuato le necessarie cure mediche perché ritenute troppo costose
Ma il grande lavoro sull’Agenda è la costruzione di un sistema statistico globale: da un lato per poter affinare la misurazione dello sviluppo sostenibile e dall’altro per avere un monitoraggio serio dei suoi obiettivi; e questo percorso, in Italia, lo sta curando l’intero Sistema statistico nazionale (Sistan) coordinato dall’Istat, membro dell’“High-level Political Forum” (HLPF) in seno alle Nazioni Unite. La lista degli indicatori che sottostanno ai “target” è arrivata oggi a livello globale a quota 244. È rinfrescata e rifinita periodicamente, come accaduto già nel marzo 2017 dopo il lavoro dell’Inter Agency Expert Group on SDGs e la successiva approvazione della commissione Statistica delle Nazioni Unite (UNSC), e come avverrà di nuovo nel 2020 e nel 2025. Gli indicatori sono le lenti poggiate sul naso del Pianeta. E vanno vagliati con attenzione visto che la strategia globale si rivolge contemporaneamente a Paesi (impropriamente detti) “sviluppati” o in via di diventarlo. Sono tre i livelli sui quali si articolano gli indicatori. “Al primo -spiega ad Altreconomia Angela Ferruzza, della direzione centrale per le Statistiche ambientali e territoriali dell’Istat- appartengono tutti gli indicatori con metodologia e standard consolidati, e regolarmente prodotti dai Paesi (83 indicatori, 34%, al dicembre 2017, ndr); nel secondo livello si trovano gli indicatori che nonostante abbiano metodologia e standard consolidati, non vengono regolarmente prodotti (67 indicatori, 27%, ndr); appartengono al terzo gli indicatori per i quali non sia disponibile una metodologia e degli standard condivisi (88 indicatori, 36%, ndr). Alcuni indicatori (3%) appartengono a più livelli, data l’eterogeneità delle loro componenti, oppure non hanno ancora un’indicazione in merito”. L’Istat è il referente in Italia per la produzione dei dati alla base dell’informazione statistica sugli SDGs.
In Italia il tasso di povertà assoluta è schizzato dal 3,3% del 2005 al 7,9% del 2016, la condizione di grave deprivazione materiale è passata dal 7% del 2004 al 12,1% del 2016
È un “lavoro di processo” sugli indicatori più adatti e le loro disaggregazioni, come lo definisce Ferruzza, che l’Istat porta avanti in rete in ambito internazionale ed europeo (in particolare con Eurostat) ma anche su scala nazionale con istituzioni diverse a seconda della materia. “Nell’immediato -spiega Ferruzza- abbiamo cercato di utilizzare le informazioni statistiche esistenti per calcolare gli indicatori richiesti dalle Nazioni Unite o almeno per avvicinarci a questi il più possibile. Dall’altra parte abbiamo operato per verificare che cosa fosse possibile produrre assieme alle altre istituzioni e colmare i gap informativi”.
Se si tratta di ambiente sono coinvolti l’Ispra, il ministero dell’Ambiente, l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia. Ma anche gli Esteri, Istruzione, il GSE, l’Istituto superiore di sanità. L’ultimo aggiornamento curato dall’Istat risale al dicembre 2017. Il prossimo sarà all’inizio di luglio di quest’anno. È come se per ognuno dei 17 Obiettivi, l’Istat -o per meglio dire il Sistan-, calasse nel contesto italiano gli indicatori adatti. In tema di povertà, ad esempio, ricorre al tasso di povertà assoluta -schizzato nel nostro Paese dal 3,3% del 2005 al 7,9% del 2016-. O alla condizione di grave deprivazione materiale: dal 7% del 2004 su scala nazionale al 12,1% del 2016. O alla quota di popolazione di 16 anni e più che non ha effettuato cure mediche di cui aveva bisogno perché ritenute troppo costose: il 6,5% in Italia nel 2016, quando nel 2006 era del 3%. In tema di salute, prodotto interno lordo e lavoro, l’Istat può contare su una solida esperienza a livello di informazione statistica. In altri campi invece “c’è da lavorare”, come riconosce Ferruzza. È il caso dei cambiamenti climatici, degli eventi estremi e dei disastri naturali. Con il contributo della Protezione civile, l’Istat sta cercando ad esempio di misurare con precisione morti, feriti, beni distrutti, e così gli eventi (terremoti, frane, inondazioni, incendi). Ad ogni modo la “spinta” in atto registrata da Ferruzza è assolutamente positiva. Ora la palla è in mano al ceto politico. Ma il fatto che nel “contratto per il governo del cambiamento” di Lega e Movimento 5 Stelle non sia stato fatto alcun riferimento all’Agenda 2030 delle Nazioni Unite non è un buon segno.
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