Diritti / Attualità
Rifugiati al lavoro, vantaggi per tutti
Oggi, solo uno su tre trova un’occupazione entro cinque anni dall’arrivo in Europa. Gestire meglio il fenomeno, secondo la società McKinsey, potrebbe portare un contributo al Pil di 60-70 miliardi l’anno entro il 2025. Ma dal 2015 diversi Paesi hanno iniziato a investire per sostenere la formazione e l’inserimento lavorativo dei profughi
“Dare ai rifugiati la possibilità di lavorare rappresenta il modo migliore per ottenere una buona integrazione anche dal punto di vista sociale e culturale. Non dobbiamo poi dimenticarci che la gran parte di queste persone resteranno a vivere in Europa per molto tempo: dare loro gli strumenti per diventare prima lavoratori e poi cittadini conviene a tutti”, dice ad Altreconomia, Iván Martín, membro dell’Interdisciplinary research group on immigration dell’università Pompeu Fabra di Barcellona e curatore della ricerca “From refugees to workers” (curata dal Migration Policy Center) che analizza le politiche messe in atto da alcuni Paesi europei (Austria, Danimarca, Francia, Germania, Italia, Olanda, Spagna, Svezia a Regno Unito) per far fronte alla sfida dell’inserimento lavorativo dei richiedenti asilo giunti nel Vecchio Continente a partire dal 2014.
Un tema che, tra il 2016 e il 2017, è stato affrontato da diversi istituti ed enti di ricerca: la conclusione condivisa è che favorire l’inclusione lavorativa di questa particolare categoria di migranti produca numerosi benefici. Non solo per i profughi giunti in Europa ma anche per i Paesi che li ospitano. Per la società di consulenze McKinsey, ad esempio, una buona gestione dei 2,3 milioni di rifugiati e richiedenti asilo arrivati in Europa tra il 2015 e il 2016 permetterebbe di generare “un contributo complessivo al Pil compreso tra i 60 e i 70 miliardi di euro l’anno entro il 2025. Nonché un potenziale impulso demografico”, si legge nella ricerca “Europe’s new refugees: a road map for better integration outcomes”.
Anche Adecco -multinazionale specializzata nella selezione del personale- ha finanziato una ricerca ad hoc (“The labour market integration of refugees”) in cui evidenzia come “la mancata partecipazione del mercato del lavoro dei rifugiati causa costi elevati per la società, per i potenziali datori di lavoro e per i rifugiati”. E raccomanda ai decisori politici di “ridurre i tempi per la procedura di asilo e permettere un ingresso precoce al mercato del lavoro e ai percorsi di formazione”.
Ma per compiere il passaggio da “rifugiati” a “lavoratori” servono risorse economiche, una normativa favorevole e soprattutto una volontà politica ben definita. “Fino al 2015, la maggior parte dei Paesi europei applicava regole molto restrittive in materia di accesso al mercato del lavoro per richiedenti asilo e rifugiati -spiega Iván Martín-. Dopo quella data è possibile individuare un trend comune a molti Paesi, seppure con le eccezioni significative di Francia e Regno Unito, che hanno messo in atto cambiamenti normativi e hanno investito in azioni per facilitare l’accesso al mercato del lavoro di richiedenti asilo e rifugiati. Sono state messe sul tavolo risorse economiche importanti, sicuramente non sufficienti rispetto alla portata della sfida, ma comunque significative”.
Complessivamente, la ricerca evidenzia 94 azioni, finalizzate a favorire percorsi di integrazione lavorativa per i richiedenti asilo messe in atto a partire dal 2015. L’Austria -ad esempio- ha stanziato 70 milioni di euro per questo obiettivo; in Germania, entro la fine del 2015, quasi tutti i governi federali avevano lanciato propri programmi e misure di supporto al mercato del lavoro per favorire l’inserimento lavorativo (dai corsi di lingua, alla mediazione lavorativa, dal coaching al supporto per i datori di lavoro). La Svezia, che già dal 2010 investe in maniera importante sull’inserimento lavorativo dei richiedenti asilo, ha potenziato i propri servizi parallelamente all’aumento dei flussi migratori.
La sfida però non sarà facile: gli ultimi dati elaborati dall’Osce indicano che solo un terzo dei rifugiati che vivono in Europa trova lavoro entro i primi cinque anni. E servono almeno vent’anni per raggiungere i livelli di inserimento lavorativo degli europei. “Tuttavia è necessario fare una precisazione: paragonare l’inserimento lavorativo dei richiedenti asilo con quello degli europei è un errore -dice Martín-. Devono fare i conti con i traumi legati al viaggio, con le difficoltà di apprendimento della lingua: hanno esigenze specifiche che devono essere affrontate”. Occorre quindi investire in formazione e in politiche attive del lavoro. Un investimento che permetterà anche di compensare in parte la crisi demografica che colpisce molti Paesi europei: il 59% dei rifugiati arrivati in Europa nel 2014 ha un’età compresa tra i 35 e i 54 anni, mentre il 19% ha tra i 25 e i 34 anni: “Sono persone che hanno davanti a sé ancora buona parte della propria vita lavorativa”, conclude Martín.
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