Economia / Opinioni
La secolare indipendenza della Banca d’Italia
Dal 1893, i direttori dell’istituto di via Nazionale sono stati chiamati a garantire la tenuta delle istituzioni, anche nei momenti più difficili. Di fronte a questa storia secolare, caratterizzata da alti e bassi, sfugge il senso di una mozione di “sfiducia”. L’analisi di Alessandro Volpi
Il primo direttore della Banca d’Italia, in carica dal dicembre del 1893, fu il genovese Giacomo Grillo che aveva trascorso tutta la sua vita professionale alla testa della Banca Nazionale del Regno, il principale istituto di emissione italiano fino alla nascita della Banca d’Italia, avvenuta nell’agosto di quell’anno. Si tratta di una figura centrale nella storia bancaria del nostro Paese, vicina prima ad Agostino Magliani, negli anni della “finanza allegra”, e poi a Giovanni Giolitti, con cui aveva collaborato proprio alla creazione della Banca d’Italia. Decise di dimettersi agli inizi del 1894 per evitare tensioni con il nuovo ministro del Tesoro, il pisano Sidney Sonnino. Gli successe Giuseppe Marchiori, un “tecnico” dotato però di uno spiccato profilo politico, certamente vicino a Sonnino, ma investito dagli azionisti (la Banca d’Italia era ancora una società per azioni privata) e dopo l’avallo del governo con un obiettivo preciso: consolidare le sorti della neonata banca centrale e quelle della più complessiva circolazione monetaria e del sistema del credito operante nel paese. In questo senso, il passaggio di consegne tra Grillo e Marchiori, pur in un clima molto teso, non fu certo oggetto di tatticismi politici.
Marchiori morì nel novembre del 1900 e il suo posto venne presa da Bonaldo Stringher, destinato a rivelarsi uno dei migliori direttori nella storia della Banca d’Italia. La sua direzione si protrasse fino al 1930, con una sola, breve, autosospensione avvenuta tra il gennaio e il giugno del 1919, durante la quale ricoprì l’incarico di ministro del Tesoro per il governo Nintti. Stringher esercitò dunque un lungo mandato che passò attraverso la grave crisi finanziaria del 1907, il periodo giolittiano, la prima guerra mondiale, l’avvento del fascismo, il consolidamento del regime e cessò solo nel 1930 con la sua morte.
È evidente in tal senso che la competenza e le grandi capacità del banchiere friuliano prevalsero su qualsiasi pressione politica e accompagnarono stagioni ben diverse sul piano economico, oltre che su quello politico. Dal “protezionismo” giolittiano alla politica di “Quota Novanta”, fino ai primi effetti della crisi del 1929. In tale arco di tempo, Stringher visse senza scosse anche la trasformazione, nel 1928, della sua carica da direttore generale a “Governatore” che nel gennaio del 1931 venne affidata a Vincenzo Azzolini, dal 1928 direttore della stessa banca e stretto collaboratore di Stringher nell’opera di stabilizzazione della lira, avviata nel 1927.
Azzolini, come Stringher, ebbe una carriera che passò attraverso vari snodi cruciali senza scossoni. Fu Governatore durante le grandi trasformazioni degli anni Trenta, dalla nascita dell’Imi e dell’Iri alla legge bancaria del 1936 con la quale si metteva mano al sistema bancario italiano, di fatto trasferendolo sotto il pressoché totale controllo pubblico. Ancora una volta le tattiche politiche restarono escluse dalle stanze di Palazzo Koch e il mandato di Azzolini si chiuse solo nell’ agosto 1944, quando fu messo sotto accusa per altro tradimento per aver consegnato le riserve auree italiane ai tedeschi, e destituito dall’incarico. Fu quello il momento più tragico nella storia della Banca d’Italia che si chiuse con la nomina di Luigi Einaudi a Governatore, nel gennaio del 1945 fino al maggio del 1948, allorché gli successe Donato Menichella, già direttore generale dell’Iri nel 1934 e dal 1946 direttore generale della stessa Banca d’Italia. Sia pur con la frattura dell’arresto di Azzolini (poi amnistiato nel 1946) anche nel passaggio dal fascismo alla Repubblica le vicende della Banca d’Italia rimasero indenni dalle più crude tensioni politiche. Si venne anzi rafforzando l’idea che proprio l’istituto di via Nazionale fosse la fucina di una classe dirigente di “tecnici” competenti in grado di garantire la tenuta delle istituzioni nei momenti più cupi.
Un profilo, questo, che interpretarono, anche Guido Carli, Paolo Baffi e Carlo Azeglio Ciampi. Proprio Baffi pagò più di ogni altro Governatore l’impegno a difesa dell’indipendenza della Banca d’Italia dalle pressioni della politica, subendo una incriminazione per favoreggiamento rivelatasi in seguito del tutto infondata. Divenuto Governatore nell’agosto del 1975, Baffi aveva intensificato l’attività di vigilanza dell’istituto centrale e aveva avuto il coraggio di chiudere il mercato dei cambi per evitare manovre speculative dopo la caduta del quarto governo Moro, suscitando critiche da più parti del mondo politico che certo non ne gradiva l’azione. Dopo le dimissioni di Baffi, Carlo Azeglio Ciampi ne proseguì il rigoroso operato fino a quando non fu chiamato ad assumere la guida del Governo nella difficilissima situazione dell’aprile 1993. La controversa stagione di Antonio Fazio, successore di Ciampi, fu superata nel 2005 dall’arrivo di Mario Draghi, forse uno dei migliori interpreti di quella che è stata definita l’arte del banchiere centrale. Di fronte a questa secolare storia che senso ha una mozione parlamentare di “sfiducia”?
Università di Pisa
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