Economia / Opinioni
Manager, super compensi e liquidazioni. Il gioco a premi che scredita il mercato
Le persone non si giudicano in base alla loro retribuzione ma accettare, senza parametri di riferimento, che un uomo valga in termini retributivi migliaia di volte più di un altro vuol dire che un mercato siffatto ha abbandonato qualsiasi riferimento con la storia dell’economia ed è divenuto la principale fonte delle disuguaglianze più odiose. Il commento di Alessandro Volpi
È giusto che un amministratore delegato percepisca una buonuscita di 25 milioni di euro dopo solo 16 mesi di lavoro? L’incremento dei clienti e dei ricavi, ottenuto in un lasso di tempo così breve, può giustificare la corresponsione di una cifra tanto enorme rispetto alla permanenza nella società? Queste domande sono mosse dalla recente vicenda di Flavio Cattaneo, ex ad di Tim, ma possono scaturire da numerosi altri esempi, a cominciare da quello di Cesare Geronzi, che ha ottenuto una “liquidazione” di 16,6 milioni di euro per 347 giorni impiegati alla presidenza di Generali, o da quello di Alessandro Profumo, beneficiario di 40 milioni di buonuscita da Unicredit che nel 2016 ha “liquidato” anche l’amministratore delegato Federico Ghizzoni con un assegno da 9,58 milioni di euro.
Sempre nel 2016, Snam ha proceduto a liquidare Carlo Malacarne, in realtà dopo 37 anni di servizio, per 6,1 milioni mentre l’amministratore delegato di Monte dei Paschi di Siena, nonostante le non brillantissime performance della banca senese, ha percepito una liquidazione di circa 3 milioni di euro. La sequenza potrebbe continuare con Matteo Arpe, destinatario di 37 milioni da Capitalia, con Amedeo Felisa, che ha lasciato Ferrari con una buonuscita di 5,5 milioni, con Stefano Siragusa che ha chiuso il rapporto con Ansaldo Sts riscuotendo un assegno di 3,2 milioni, e con vari altri nomi. Si tratta di cifre rilevantissime che, per molti versi, paiono difficilmente riconducibili all’andamento delle società da cui escono i top manager e soprattutto generano un totale stravolgimento dell’idea che il valore delle retribuzioni -in questo caso persino delle liquidazioni- sia ricollegabile alla mole di lavoro svolta dal beneficiato.
Come è possibile “maturare” in pochi giorni cifre astronomiche senza che ciò non infici profondamente il senso stesso del lavoro? Consentire guadagni straordinari svincolandoli dal tempo significa trasformare l’economia in un colossale gioco a premi che rende ancora più artificiale la nozione del denaro e toglie reale credibilità al mercato. Non può esistere infatti un mercato credibile che permette di maturare una liquidazione di oltre 50mila euro al giorno perché un tale mercato non è in grado di assegnare un valore e un prezzo coerenti con le stesse attività lavorative; chi merita veramente 50mila euro al giorno? Simili cifre irreali possono essere corrette poi attraverso l’autoregolamentazione del mercato stesso che non troverebbe troppe difficoltà ad abbattere il monte di tali retribuzioni spostandole a livelli decisamente più bassi; nel caso di Cattaneo, ad esempio, è davvero paradossale che i 25 milioni liquidati siano il risultato di una transazione a fronte di una possibile richiesta di 50 milioni. Sembra impossibile pensare che non si potesse reclutare un manager, dotato delle competenze necessarie, che avrebbe accettato di fare l’amministratore delegato di Tim con la garanzia di una liquidazione decisamente più consona al tempo di permanenza alla guida della società.
Questa autoregolamentazione dovrebbe essere stimolata anche da una “sanzione morale” diffusa, capace di condizionare le scelte e le preferenze del mercato stesso, che contribuisca a rendere inammissibile il totale sganciamento fra liquidazioni e lavoro prestato, considerando questo un vulnus profondo all’idea comune di giustizia sociale. Considerazioni analoghe sono possibili per gli “stipendi” veri e propri di manager e dirigenti che la globalizzazione finanziaria ha reso infinitamente più alti rispetto alla media delle retribuzioni degli altri lavoratori, con differenze di fatto sconosciute nel passato e così marcate da rendere indispensabile l’introduzione di tetti a tali stipendi d’oro. Come si giustificano stipendi da 20 milioni di euro al mese per manager di società quotate, magari non sempre in buone acque, oppure retribuzioni annuali superiori ai 500-600mila euro per dirigenti pubblici, o ancora ingaggi per sportivi da 5-10 milioni di euro? È chiaro che si tratta di situazioni diverse l’una dall’altra, ma il dato comune, sia che a pagare sia una società privata o un’azienda pubblica, è rappresentato dalla distanza siderale nei confronti delle retribuzioni della stragrande maggioranza dei concittadini di simili paperoni e dalla già ricordata mancanza di un nesso reale con il tempo di lavoro impiegato e, non di rado, persino con i risultati. Senza voler richiamare i fondamentali dell’economia classica, risulta comunque complesso trovare un’unità di misura del valore del lavoro prestato che possa motivare differenze così stratosferiche; accettarle vuol dire rinunciare ad avere qualsiasi parametro di valutazione che non sia la totale discrezionalità di un presunto e del tutto ipotetico mercato, screditato proprio dal fatto di ammettere compensi impronunciabili. È vero che le persone non si giudicano in base alla loro retribuzione ma accettare, senza parametri di riferimento, che un uomo valga in termini retributivi migliaia di volte più di un altro vuol dire che un mercato siffatto ha abbandonato qualsiasi riferimento con la storia dell’economia ed è divenuto la principale fonte delle disuguaglianze più odiose.
Università di Pisa
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