Diritti / Inchiesta
Ecco come i nostri dati personali diventano la miniera di Facebook
Abbiamo analizzato i bilanci della “cassaforte” irlandese del gruppo di Mark Zuckerberg: tra 2014 e 2015, ha registrato ricavi per 12,7 miliardi di euro e versato imposte per poco meno di 20 milioni di euro: lo 0,15%. In Italia non opera soltanto attraverso la “Facebook Italy Srl”. C’è una seconda società, rimasta fino ad oggi sconosciuta
Quindici dollari e novantotto centesimi. È il “valore” che ciascun utente nel mondo ha assunto agli occhi di Facebook nel 2016. La media globale è tratta dai bilanci della multinazionale nata nel 2004 (sede legale in Delaware, Stato Usa a fiscalità agevolata). I cittadini statunitensi e canadesi sono una miniera d’oro: il loro “apporto”, infatti, ha toccato quota 62,63 dollari pro-capite. L’Europa è staccata (19,4 dollari) ma il primo trimestre di quest’anno ha fatto segnare un incremento del 36% rispetto allo stesso periodo del 2016. Le aree di “Asia e Pacifico” e del “Resto del mondo” -come vengono classificate da Facebook nella sezione “Fatturato medio per utente”- rincorrono, rispettivamente con 7,29 e 4,66 dollari. Sono loro la nuova frontiera.
La fonte di quei ricavi è illustrata dalle slide messe a punto dal colosso, dove il contributo miliardario degli “utenti-risorsa” è suddiviso in due parti. “Pubblicità” e “Pagamenti o altre commissioni”. La prima, pesando per oltre il 97%, straccia la seconda. L’apparente gratuità del social network non può quindi fare a meno delle tracce di chi naviga, consuma, visualizza o clicca inserzioni. Senza i dati personali, il modello economico non regge. Ogni dettaglio ha valore. È il motivo per cui, nel febbraio di tre anni fa, Facebook ha acquistato la piattaforma di servizi di messaggistica e chiamate internet più diffusa al mondo -WhatsApp-, sborsando tra azioni e capitale circa 19 miliardi di dollari. All’epoca, la App contava 465 milioni di utenti attivi. Oggi (dati Statista aggiornati al gennaio 2017) sono circa 1,2 miliardi. Anche in Italia la diffusione è capillare: al novembre 2015, è l’ultima rilevazione di comScore citata dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom), i suoi utenti erano 20 milioni.
WhatsApp è installata sugli smartphone di chiunque ma in Italia non ha uffici, referenti o recapiti. Nemmeno un ufficio stampa. Chi si occupa della comunicazione di Facebook nel nostro Paese, infatti, ha fatto sapere ad Altreconomia di non avere in capo la piattaforma di messaggistica. L’ha saggiato anche l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm): quando ha avviato due procedimenti a suo carico, dall’ottobre 2016, l’Antitrust italiana si è dovuta interfacciare ogni volta con la “WhatsApp Inc.”, domiciliata a Menlo Park, in California. L’Autorità ha acceso due fari sulla App. Uno ha illuminato la gestione dei dati personali degli utenti. L’altro, il contenuto delle clausole contrattuali che ciascun utilizzatore della chat istantanea ha spuntato dopo l’installazione. La questione “dati personali” nasce il 25 agosto 2016, quando WhatsApp decide di modificare “Termini di utilizzo” e “Informativa sulla Privacy” pre-impostando l’opzione che prevede la condivisione con Facebook di alcuni “dettagli” personali del proprio account: tra questi, numeri di telefono contenuti nella rubrica e informazioni di base sull’utilizzo del servizio, compreso l’accesso. Finalità dichiarate: “Migliorare le proprie esperienze con le inserzioni e i prodotti di Facebook”. A chi non si fosse adeguato alla profilazione commerciale e pubblicitaria “veniva prospettata l’interruzione del servizio”. Un illegittimo “condizionamento indebito”. Le parole sono dell’Antitrust, che l’11 maggio 2017 ha sanzionato WhatsApp per questa pratica commerciale giudicata “aggressiva” e “scorretta”. Gli iniziali quattro milioni di euro di “multa” sono stati ridotti a tre perché la società ha dichiarato di aver sospeso gli effetti del passaggio in Europa. Anche se solo “temporaneamente”. La cosa interessante è che quando WhatsApp è stata chiamata a rispondere del “valore” dei propri utenti, ha negato l’evidenza. “Il rilievo dell’Autorità in base al quale le informazioni dei profili costituiscono una controprestazione per il servizio fornito agli utenti dal social media sarebbe erroneo”. Tradotto: i dati non si convertono in dollari.
“Il diritto alla protezione dei dati si è dimostrato un fattore di garanzia, capace di correggere asimmetrie informative e disparità contrattuali” (Antonello Soro)
L’Autorità italiana, però, non ha sposato questa tesi. Anzi, citando un orientamento consolidato della stessa Commissione europea -che a sua volta ha comminato una multa a danno di WhatsApp per 110 milioni di euro sulla questione trasferimento dati-, ha riconosciuto che “i dati personali, le preferenze dei consumatori e altri contenuti generati dagli utenti hanno un valore economico de facto e vengono venduti a terzi”. È quella “remunerazione non pecuniaria” che Facebook misura ogni anno su scala mondiale e che la stessa WhatsApp ha ammesso nel carteggio avuto (prima in inglese e poi in italiano) con l’Antitrust. “Ancora oggi -si legge-, l’advertiser (ad esempio una banca) paga una fee a Facebook per far visualizzare la pubblicità ai soggetti individuati tramite l’indirizzo email. Con l’associazione dei numeri di telefono di WhatsApp il sistema migliora poiché sono selezionati in modo più accurato i destinatari della pubblicità”. L’utente è lo scopo. Sul punto, nel suo discorso di presentazione dell’ultima relazione del Garante per la protezione dei dati personali (giugno 2017), il presidente Antonello Soro, ha usato toni forti: “Il diritto alla protezione dei dati si è dimostrato un prezioso fattore di garanzia, capace di correggere quelle asimmetrie informative e disparità di forza contrattuale che caratterizzano, sempre di più, i rapporti tra i cittadini e i detentori del potere pubblico e privato. E viene sempre più invocato di fronte a soverchianti schiavitù volontarie cui rischiamo di rassegnarci, in cambio di utilità e servizi digitali che paghiamo al prezzo di porzioni piccole o grandi della nostra libertà”.
La delibera dell’Antitrust dell’11 maggio 2017 non si esaurisce nella sanzione. WhatsApp, in aggiunta, deve interrompere la pratica -ancora in corso- e far sapere all’Autorità “le iniziative assunte”. Se non s’adegua (a metà giugno non era noto alcun ricorso al Tar del Lazio, il termine scade l’11 luglio), l’attività del social media potrebbe essere sospesa “per un periodo non superiore a trenta giorni”. Accanto a questo c’è il faro puntato sulle clausole contrattuali tra WhatsApp e i suoi utenti. Spicca quella sulla “responsabilità”. WhatsApp si riserva una “Limitazione di responsabilità” dalle maglie larghissime. Nessuna responsabilità nei confronti dell’utente per “danni consequenziali, speciali, punitivi, indiretti o accidentali relativi a, derivanti da o legati ai nostri termini, a noi o ai nostri servizi”, anche nel caso in cui “le parti di WhatsApp fossero state avvisate dell’eventualità del verificarsi di tali danni”. E mentre l’utente è esposto a una responsabilità (anche pecuniaria) illimitata, quella che il social media s’intesta “non eccederà l’ammontare più elevato tra cento dollari o l’importo che l’utente ci ha pagato negli ultimi dodici mesi”.
La responsabilità è un tema delicato per la sua proprietaria, Facebook. C’è anche una spiegazione anagrafica: la multinazionale è nata nel 2004, mentre in Europa la direttiva che regola (anche) questi aspetti dei “servizi della società dell’informazione” risale al lontano 2000 (ed è stata recepita in Italia attraverso il decreto legislativo 70 del 2003). A piccoli passi, però, qualcosa si sta muovendo. È accaduto nell’aprile di quest’anno a Napoli, dove il Giudice per le indagini preliminari Tommaso Perrella ha ordinato l’iscrizione nel registro degli indagati del legale rappresentante di “Facebook Italia” per il reato di “trattamento illecito di dati”. I fatti riguardano il tragico suicidio di una 31enne, giunta all’atto estremo nel settembre 2016 dopo la divulgazione incontrollata di “fotografie e video pornografici”. Anche su WhatsApp (come file) e su Facebook (sotto forma di link). Materiale che gli avvocati della giovane avevano più volte chiesto al social network di rimuovere, con diffide scritte, a partire dal maggio 2015. E che invece è rimasto online per almeno tre mesi.
Nella sua ordinanza, il Gip ha dato mandato di indagare le ragioni della “mancata cancellazione dei link”. Occorre infatti “appurare se il comportamento illecito sia stato animato da una finalità di profitto […] ovvero da altra ragione”. Il rappresentante legale di Facebook in Italia ha già un nome e un cognome. Non si tratta di Luca Colombo, che nelle interviste rilasciate ai media nazionali è presentato come “country manager”. L’uomo giusto è Hugh Shane Crehan, irlandese. Stando agli atti depositati presso la Camera di Commercio di Milano, amministra la Facebook Italy Srl -interamente di proprietà della Facebook global holdings II, LLC- insieme a William David Kling, statunitense. Elma Malone, anch’egli cittadina irlandese, ha invece la procura in tema di privacy. Crehan è una figura di primo piano nell’universo di Facebook. Siede nei consigli di amministrazione di almeno sei società del gruppo, tutte con sede legale in Irlanda (Paese a fiscalità agevolata). Tra queste c’è anche la “cassaforte” Facebook Ireland Limited, vettore che accumula tutti gli introiti pubblicitari raccolti nei Paesi europei in cui opera il social network e poi restituisce somme inferiori alle succursali nazionali -piccole Srl, come nel caso italiano- sotto forma di commissioni per l’attività di marketing.
La crescita dei fatturati della Facebook Ireland Limited è impressionante. Bilanci depositati a Dublino alla mano, questi sono passati dai 4,8 miliardi di euro del 2014 ai 7,9 del 2015 (il 2016 non è stato ancora pubblicato). Sommando gli ultimi due anni, la società irlandese ha registrato ricavi per 12,7 miliardi di euro e versato imposte per poco meno di 20 milioni di euro: lo 0,15%. Crehan -che non rilascia interviste- ha un altro punto di contatto con il nostro Paese per conto di Facebook. Nell’elegante Palazzo Folonari di Brescia, ha sede infatti la branca italiana della Edge Network Services Limited (Crehan ne è l’amministratore), un’altra scatola irlandese del gruppo, di proprietà della Facebook International Operations Limited. Si dovrebbe occupare di “servizi di connettività” per la galassia fondata da Mark Zuckerberg. Tra il 2014 e il 2015 ha raddoppiato i fatturati, passando da 70 a 140 milioni di euro. Nel nostro Paese, però, pur risultando attiva da tre anni, non ha mai chiuso un bilancio. La riservatezza, in questi casi, è massima.
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