Una voce indipendente su economia, stili di vita, ambiente, cultura
Esteri / Intervista

“Rompere il muro”. Per non disperdere dieci anni di carovane solidali a Gaza

Alcuni ragazzi giocano a pallone ad Al-Mawasi, Khan Younis, nella Striscia di Gaza, all'inizio di dicembre del 2024 © Habboub Ramez/ABACA / ipa-agency.net / Fotogramma

Nel dicembre 2014 nasceva nella Striscia il Gaza Freestyle, realizzato dalla Ong Associazione di cooperazione e solidarietà (Acs). Una forma di “diplomazia dal basso” e di formazione tra giovani italiani e palestinesi, tra arte, circo, musica, fotografia, skateboard e parkour. Meri Calvelli, capo missione Acs per la Palestina, racconta che cosa ne è rimasto, le prospettive di ricostruzione e l’attività di Acs oggi

Immaginarlo ora sembra impossibile ma dentro Gaza c’era un tendone da circo, la rampa da skateboard più grande del Medio Oriente e decine di artiste e artisti che esponevano le loro opere: in comune avevano la partecipazione al Gaza Freestyle, un progetto della Ong Associazione di cooperazione e solidarietà (Acs). In ricordo del progetto e soprattutto per sostenere le attività in corso per la popolazione di Gaza, è nato il libro Rompere il muro. Dieci anni di carovane solidali a Gaza (Prospero editore). Ne abbiamo parlato con Meri Calvelli, capo missione Acs per la Palestina.

Calvelli, perché avete deciso di scrivere questo libro proprio ora?
MC
Perché il Gaza Freestyle iniziò proprio nel dicembre di dieci anni fa, dopo la guerra del 2014. Era un progetto di scambio e formazione tra giovani italiani e di Gaza, in tantissimi aspetti e settori della vita quotidiana. Era nato da una richiesta degli stessi ragazzi e ragazze e, come tutti i nostri progetti per i giovani della Striscia e anche in Cisgiordania, non è mai stato finanziato, né preso troppo in considerazione.

E quindi come lo avete sostenuto?
MC Questi erano progetti che partivano più o meno dal basso, in forma di solidarietà, attraverso donazioni e che allo stesso tempo davano la possibilità di incontrare e sostenere le richieste dei ragazzi e delle ragazze. Il Gaza Freestyle nasce proprio dalla necessità di poter entrare dentro Gaza e rompere effettivamente quel muro che la separa dal resto del mondo, per venire a contatto con la popolazione e soprattutto con i giovani. Diciamo che è una forma di diplomazia dal basso.

Quanti giovani avete coinvolto da una parte e dall’altra in questi dieci anni?
MC Migliaia. Con ogni carovana entravano dalle 40 alle 100 persone, ogni anno, da dicembre a gennaio, perché era il periodo delle ferie scolastiche. Insomma c’era un bel via vai.

Erano tutti italiani?
MC Sì, venivano da tutta Italia. Il gruppo iniziale da Milano, dal centro sociale Lambretta, poi però si sono formati Gaza Freestyle un po’ ovunque, soprattutto a Roma. Ogni tanto si aggiungeva qualche europeo, dall’Olanda o dalla Norvegia.

Che cosa c’era dentro il Gaza Freestyle?
MC C’erano le attività circensi, quelle sportive e le arti. A Gaza conoscevano lo skateboard, come il parkour, solo attraverso internet e non avevano mai incontrato chi lo praticava. Così siamo entrati con gente che lo faceva, ma non solo: fino a un certo punto siamo riusciti anche a portarli fuori da Gaza, ma dal 2013 in poi non è più stato possibile. Da lì, la scelta di entrare in maniera continuativa. Nel 2021 abbiamo realizzato “Green Hopes Gaza” -l’unico progetto finanziato dal ministero degli Esteri e dalla cooperazione italiana- abbiamo riqualificato una discarica abusiva e l’abbiamo trasformata in parco pubblico. Quello fu uno degli spazi che venne poi utilizzato anche dal Gaza Freestyle, nelle attività di scambio e formazione, che erano già attive e autofinanziate da anni. I circensi italiani venivano a fare lezione e allora in quello spazio abbiamo messo -facendolo entrare con mille peripezie- un tendone da circo. Abbiamo costruito la rampa da skateboard, che era considerata la più grande di tutto il Medio Oriente, dove i ragazzi si esercitavano. Ci facevamo calcio, basket, pallavolo, attività musicali e i graffiti, un’altra specialità di tantissimi artisti di Gaza. Facevamo formazione anche dentro le università, come alla facoltà di Arte dell’Università di Al Aqsa, dove studiavano centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi. Molti artisti italiani erano venuti a farci lezione.

Che cosa è rimasto di tutto questo?
MC
È rimasta la gente che ricorda, quella che è ancora viva, perché purtroppo molti sono stati uccisi. Per quanto riguarda le strutture, non sappiamo esattamente che cosa sia rimasto: il parco Green Hopes era a Nord, vicino al confine israeliano, quindi in una delle prime zone abbattute. Sappiamo che la rampa del porto non c’è più, non sappiamo il tendone da circo. Continuiamo a sostenere i circensi nelle attività psico-sociali che fanno, imperterriti, per i bambini sfollati. Purtroppo alcuni sono stati uccisi tra i primi, perché appunto abitavano a Nord.

Avete perso qualcuno del vostro staff?
MC Staff in senso stretto no, ma avevamo così tante attività sparse per la Striscia, che molti di quelli che lavoravano con noi su diversi progetti, tanti compagni e amici, non ci sono più.

Dal 7 ottobre 2023 come sono cambiate le vostre attività?
MC
Da allora ci occupiamo esclusivamente di aiuti umanitari alla popolazione. Tre dei nostri progetti di emergenza e sviluppo, che erano già stati approvati, finanziati e in parte già iniziati, dopo il 7 ottobre sono stati bloccati dal ministero degli Esteri, che ha bloccato tutti i progetti a Gaza.

Anche in Cisgiordania?
MC Sì. Ancora oggi non stanno partendo i progetti di emergenza nemmeno in Cisgiordania. La motivazione è una presunta clausola “antiterrorismo” da inserire nei progetti, come se andassero a finanziare il terrorismo. Tutte le nostre attività -l’ultima erano dei desalinizzatori e stavamo chiudendo le discariche- non si possono più fare e quindi le abbiamo riviste ex novo, più che convertite, accogliendo i bisogni della popolazione. Ancora una volta, tutto quello che facciamo è finanziato dal basso.

Che cosa state facendo quindi a Gaza?
MC Innanzitutto cerchiamo di rispondere alle richieste della popolazione: chiedono cibo, denaro, tende, coperte e vestiti invernali. Queste sono le domande arrivate fin all’inizio, per sopravvivere, ma dopo un anno di guerra, devi anche riprendere una vita che non ha niente a che fare con quella precedente. Per questo una delle richieste che stiamo appoggiando ora è la costruzione delle tende-scuola, perché le ragazze e i ragazzi, dalle elementari in su, non hanno più accesso all’educazione e all’istruzione scolastica. Chiaramente non ci sono più le scuole, ma nemmeno i materiali e i presidi scolastici: tavoli, libri, quaderni, penne, niente di niente. Stiamo cercando di provvedere, anche grazie all’aiuto di molti docenti e formatori locali, che stanno cercando di rimettere in piedi l’istruzione.

Continuate a cucinare pasti caldi?
MC
Sì, abbiamo avuto fin dall’inizio la possibilità di ricevere cibo dalla Ong World central kitchen (i cui lavoratori sono stati attaccati due volte dalle forze armate israeliane, ndr) e grazie ad alcuni cuochi, che ci conoscevano per gli scambi e la formazione -alcuni erano venuti anche in Italia- abbiamo messo su delle cucine mobili. Abbiamo iniziato con tremila pasti al giorno, poi le cucine si sono replicate in altre zone. Li abbiamo riforniti di pentoloni e fornelli: sono stati colpiti tante volte e si sono dovuti muovere, ma ogni giorno cucinano dai tre ai cinquemila pasti in ogni punto

Dove prendete il cibo?
MC Prima c’era questo meccanismo della World central kitchen, che lo portava gratuitamente, oggi dobbiamo comprare al mercato nero, perché non entra nulla. I pochi camion che passano vengono saccheggiati e i prezzi dei beni hanno raggiunto cifre allucinanti.

Quali altri progetti avete?
MC Abbiamo un progetto per le donne, per fornire da una parte uno sportello psicologico, dall’altro un aiuto pratico, di carattere igienico, perché per loro è sicuramente uno dei momenti più difficili. Mancano gli assorbenti, i materiali per l’igiene e anche i bagni. Ne abbiamo costruiti alcuni. Inoltre, facciamo distribuzioni settimanali di cibo e acqua.

Il ricavato della vendita del libro andrà a questi progetti?
MC Sì, finanzierà le nostre attività, come la nostra raccolta fondi Sos Gaza, che è sempre attiva.

Quali testimonianze ci sono nel libro?
MC È un libro scritto a più mani dalle persone, sia italiane sia palestinesi, che hanno partecipato ai momenti di scambio e formazione. Le ragazze e i ragazzi che sono entrati a Gaza e quelli che li hanno accolti o sono venuti in Italia. Raccontano cosa ha significato per loro quest’esperienza e come li ha cambiati.

Quando tornerete, da dove ricomincerete?
MC
Gli abitanti ci dicono e sperano -e mi auguro che questa speranza non finisca mai- di ricostruire Gaza, seppure con il sangue agli occhi. Sarà molto dura ma è quello che chiedono.

Anche gli animi vanno ricostruiti.
MC
Decisamente. Nei momenti migliori riescono addirittura a fare previsioni, lo dimostra il fatto che stanno cercando di rimettere in piedi l’istruzione. Vogliono continuare ad andare avanti nella vita quotidiana e questa è una forza pazzesca. Se sai che domani devi morire, non pensi all’istruzione, invece, per andare avanti, serve conoscere, capire e studiare, come hanno sempre fatto i palestinesi.

© riproduzione riservata

Newsletter

Iscriviti alla newsletter di Altreconomia per non perderti le nostre inchieste, le novità editoriali e gli eventi.


© 2024 Altra Economia soc. coop. impresa sociale Tutti i diritti riservati