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La condizione dei migranti afghani in Iran è segnata da discriminazioni e violenze
Quest’anno più di 500mila cittadini afghani sono stati rispediti oltre il confine dalle autorità iraniane e Teheran ha anche avviato la costruzione di un muro. Il clima è pesantissimo: a metà ottobre sono state uccise almeno 270 persone mentre cercavano di attraversare la frontiera. Il punto della situazione e le voci di chi subisce un processo di deumanizzazione anche in tema di lavoro, casa e istruzione
“La vita qui è molto complicata: la polizia può fermarti in qualsiasi momento. Mia moglie era incinta di tre mesi, ma a causa dello stress ha perso il bambino”. Zalaan (il cui nome è stato cambiato per ragioni di sicurezza) è afghano, ma queste parole le pronuncia dall’Iran, dove da più di cento giorni è bloccato insieme alla sua famiglia, in attesa di ottenere i documenti necessari per spostarsi in Europa.
“In questo momento i servizi iraniani sono in allerta a causa del conflitto con Israele e ci sono tanti controlli, soprattutto sui migranti”, racconta Zalaan. Ma la condizione degli afghani nella Repubblica Islamica è caratterizzata da tempo da discriminazioni e violenza. In particolare, le cose hanno cominciato a peggiorare negli ultimi vent’anni, spiega l’antropologo iraniano Shahram Khosravi, secondo cui “lo Stato ha iniziato a fomentare un sentimento anti-afghano che era probabilmente già presente, ma da allora è diventato parte della politica”.
Arezoo (anche questo è un nome di fantasia) in Iran ci è nata e cresciuta ma, come tutti i figli di persone migranti, non ha mai potuto ottenere la nazionalità e ha dovuto combattere con la burocrazia per rinnovare ogni anno il suo permesso di soggiorno fino a che non ha lasciato il Paese, circa sei mesi fa.
“Negli ultimi due anni ho dovuto fare domanda per il permesso di soggiorno e lavorare come segretaria, nonostante sia laureata in ostetricia”, racconta Arezoo, spiegando che in Iran i documenti di soggiorno vengono rilasciati ai “migranti” soltanto per determinate categorie professionali, solitamente quelle considerate più umili e mal pagate; mentre l’equivalente della carta d’identità non viene quasi mai concesso a chi è considerato straniero, impedendo così l’accesso a diversi servizi essenziali.
La legge sulla cittadinanza in Iran è estremamente restrittiva: solo nel 2020 è stata approvata una norma che consente ai figli nati da madre iraniana e padre straniero di ottenere la nazionalità. “Una delle maggiori difficoltà degli afghani in Iran è la mancanza di tutele legali”, conferma Khosravi.
Oltre alle discriminazioni e alle difficoltà di ottenere i documenti, si aggiunge il fatto che questi possono non essere una sufficiente garanzia di sicurezza. “Un ragazzo che conosco è stato fermato dalla polizia: lui aveva i documenti, ma glieli hanno strappati e l’hanno portato in un centro per rimpatri -ricorda Zalaan- da allora suo padre non ha più avuto sue notizie”.
Negli ultimi anni le deportazioni di migranti sono aumentate e, secondo le autorità talebane, nel 2024 più di 500mila afghani sono stati rispediti oltre il confine dalle guardie di frontiera iraniane. Secondo Khosravi, si tratta di una strategia “per mettere pressione sui Talebani: i migranti vengono usati come armi nel gioco geopolitico tra i due Paesi”. Questa tendenza rischia di aumentare dal momento che la scorsa estate al Parlamento iraniano si è cominciato a discutere di una proposta di legge che intende ridurre ogni anno del 10% la presenza straniera nel Paese che, se il provvedimento sarà approvato, non dovrà superare la soglia del 3% in ogni città o villaggio.
Secondo le ultime stime dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), quella afghana è la nazionalità straniera più presente in Iran, con circa 3,7 milioni di persone, ed è quindi quella più colpita dalle restrizioni imposte dalla Repubblica Islamica.
A dimostrazione di una precisa volontà di ridurre la presenza afghana, l’Iran ha avviato la costruzione di un muro di separazione alla frontiera, che conta finora 10 chilometri, ma dovrebbe espandersi per altri 50.
Le autorità iraniane hanno spiegato che questa misura servirà a prevenire infiltrazioni e attacchi come quello avvenuto a Kerman lo scorso gennaio, rivendicato dal gruppo Stato islamico del Khosaran (Isis-K). Tuttavia, la barriera renderà anche più complicato il viaggio degli afghani che cercano di lasciare il proprio Paese, numero in costante aumento da quando i Talebani hanno ripreso il potere nell’agosto del 2021. I migranti che attraversano la frontiera sono inoltre esposti al rischio di arresti e violenze.
A metà ottobre le guardie di frontiera iraniane avrebbero sparato a un gruppo di circa 300 afghani a Kalagan, al confine con il Pakistan, uccidendo o ferendo almeno 270 di loro, secondo quanto testimoniato dai superstiti e dai video circolati sui social media. L’ambasciatore iraniano in Afghanistan Hassan Kazemi Qomi ha negato l’episodio, mentre la missione delle Nazioni Unite nel Paese (Unama) ha chiesto che venga avviata un’indagine indipendente.
“La notizia dell’uccisione di migranti al confine con l’Iran non è una novità per gli afghani, ma questa volta la portata della tragedia è stata maggiore, orribile. Non dovrebbe essere considerata l’errore di un soldato di frontiera, ma un episodio in cui tutti i livelli decisionali del governo iraniano hanno avuto un ruolo e sono stati responsabili”. Zahid Mustafa, intellettuale e docente di giornalismo, ha commentato così la vicenda su Radio Zamaneh, un media indipendente in lingua farsi, esortando gli iraniani a “salvare il Paese non solo dalla Repubblica Islamica, ma anche dall’ondata fascista che lo ha travolto”.
“Dov’è l’umanità in tutto questo?” si chiede Arezoo che, dopo questo episodio, afferma di aver visto sui social media commenti di utenti iraniani che elogiavano le autorità, esortandole “ad ammazzarne altri”. “Gli afghani non sono considerati persone? I miei amici mi dicono che non hanno problemi con gli afghani, che è lo Stato che ha problemi, ma non è così da quello che vedo dai commenti sui social che mi fanno venire i brividi, anche da parte di persone che conosco”.
Secondo Shahram Khosravi, il movimento Donna, vita, libertà, nato nel 2022 dopo la morte di Jina Mahsa Amini, “all’inizio è stato promettente anche per la questione degli afghani: c’era la speranza che questo movimento avrebbe incluso anche altri problemi, come la questione dei migranti”. Ma per il momento, “forse perché è stato represso in maniera molto brutale, vediamo che il movimento è molto debole e purtroppo non è riuscito a cambiare le cose”.
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