Diritti / Reportage
La tomba del fratello e i corpi dei migranti finiti nei fiumi dei Balcani

Lungo la Drina, tra Bosnia e Serbia, o la Sava, tra Bosnia e Croazia, sono decine le persone che hanno perso la vita in questi anni nel tentativo di attraversare la frontiera, verso l’Europa. Chi si batte per custodirne la dignità
“Io non uso mai la parola ‘cadavere’, questi sono corpi, corpi umani, ognuno con un’anima e pensieri prima di morire, e una famiglia”. Da trent’anni Vidak Simić è medico legale a Bijeljina, città della Repubblica Serba nel Nord-Est della Bosnia ed Erzegovina, affacciata sulla riva Ovest del fiume che oggi segna il confine tra la Bosnia e la Serbia.
È la Drina, fiume leggendario e fatale, secondo qualcuno maledetto, con le sue acque verdi che paiono scorrere tranquille. Linea di demarcazione tra gli Imperi Romano d’Oriente e d’Occidente prima, Austroungarico e Ottomano poi, nei secoli ha accolto la morte di molte genti, spesso non uccise dal fiume, non da meno è stata l’ultima guerra balcanica che l’ha reso di nuovo frontiera ufficiale. Oggi a morire sono i giovani migranti che provano ad attraversarla.

Il volto del dottor Simić è gioviale, lo sguardo acuto, un filo d’ironia sotto i folti baffi. “Risale al 2016 il primo ritrovamento nella Drina del corpo di un migrante -racconta- da allora ho cominciato a occuparmene, e sempre di più. Il mio non è un bel lavoro, ma è questione di responsabilità. Credo fermamente nel giuramento di Ippocrate, la mia famiglia, i miei professori e la mia religione mi hanno insegnato a essere così”.
Nel suo ufficio a lato dell’obitorio dell’ospedale di Bijeljina c’è un piccolo frigorifero, un po’ datato. “L’importante è che continui a funzionare”, commenta il dottore. All’interno, i reperti ossei di 40 persone, vittime del fiume e dell’impossibilità di entrare in Europa in maniera legale. “Secondo la legge -prosegue Simić- dovrei conservare i campioni biologici necessari all’esame del Dna non oltre i tre anni. Ma io li tengo molto di più, il più a lungo possibile, perché è nostro dovere fare di tutto per identificare queste persone, lo dobbiamo a loro e alle loro famiglie. Ho bisogno di fare così, voglio fare così, e non ho paura di nessuno”. Mentre parla, estrae e mostra un segmento di femore, con estrema delicatezza.

Quando raggiungiamo il fiume nel punto in cui è stato rinvenuto uno dei corpi, un pescatore e una coppia siedono sulla riva. “Guardate come sembra scorrere placido -fa notare Simić-, in superficie in effetti lo è, ma in profondità si agitano mulinelli e forti correnti; in molti casi, i ragazzi iniziano ad attraversarlo posando i piedi su pietre che in realtà sono instabili e cedono facendo sprofondare la vittima preda della corrente. Nemmeno noi facciamo il bagno qui, è troppo pericoloso”.
Di solito i corpi riemergono dopo settimane, ma non sempre: “Sono stati trovati quaranta corpi in questi ultimi anni, ma vi posso garantire che sono molti di più e non si troveranno mai”. Inizialmente non esisteva un sistema per identificare i corpi, nemmeno informale, in assenza d’interesse da parte delle istituzioni.
Poi qualcosa si è mosso, anche grazie a Nihad Suljic, giovane volontario di Tuzla che, dopo anni in aiuto ai rifugiati di passaggio, è diventato un punto di riferimento per le comunità di stranieri. È lui che fa da tramite tra le famiglie in cerca dei giovani dispersi e il dottor Simić, ciò che ha permesso l’identificazione e il rimpatrio di quattro dei quaranta corpi annegati nella Drina.
“Grazie agli scatti che mi arrivano dalle famiglie posso verificare la mia documentazione fotografica dei corpi fatta al momento del ritrovamento; se ci sono riscontri, si può passare all’esame del Dna che però i familiari devono venire a fare qui, ma non è alla portata di tutti. Per questo il mio sogno è un database centralizzato di raccolta dei test, che potrebbe consentire alle famiglie di prelevare il Dna nel proprio Paese”.
Grazie a Nihad e a una raccolta fondi, parte delle vittime della Drina riposa in un settore del cimitero di Bijeljina, ognuna con la propria lapide, anche se con la scritta “HH” (che in cirillico sta per NN, “no name”), e un’iscrizione che ne onora la memoria. Altre sono in cima alla collina del cimitero di Zvornik, dove però non è stato concesso il permesso per la lapide commemorativa.
Incontriamo Nihad in un bar alla moda di Tuzla. “Spesso porto qui i miei amici migranti -racconta-, si vorrebbe renderli invisibili e io invece voglio che la gente li veda, siamo tutti persone”. Tuzla è parte della Federazione bosniaca della Bosnia ed Erzegovina, territorio a maggioranza musulmana, e così anche Nihad. Capelli ordinati con riga da un lato, occhiali e aria da nerd, è una fonte inesauribile di storie, da quando nel 2018 iniziò a recarsi alla stazione dei bus di Tuzla con uno zainetto pieno di cioccolata e bottiglie d’acqua da distribuire.
“A novembre 2022 un giovane afghano morì cadendo da una piccola barca -racconta Nihad- mentre cercava di attraversare la Sava, fiume al confine tra Bosnia e Croazia; con lui c’era suo fratello, che è sopravvissuto, ma il corpo del ragazzo fu trovato dalle autorità croate solo tempo dopo”. Il tramite per ottenere il rilascio del corpo dalle autorità croate durò oltre un anno. La mamma di Jawed -questo il nome del ragazzo, che aveva 24 anni- non aveva i mezzi per il rimpatrio della salma, chiese solo una degna sepoltura.
Il giorno dopo, seguendo la posizione condivisa da Nihad, ci addentriamo poco fuori Tuzla in una strada sterrata che costeggia piccole case e campi coltivati, tra i boschi; l’ultimo tratto bisogna farlo a piedi, prima di scorgere su un piccolo dosso un gruppo di tombe, non più di una quindicina, in mezzo alle quali c’è anche la lapide di Jawed. La scritta incisa su un lato riporta il testo voluto da sua mamma.

Qualche giorno più tardi al Daily integration center di Sarajevo -associazione che aiuta le persone in movimento in diversi modi, anche fornendo loro uno spazio di incontro di semplice ma preziosa socializzazione- ci sono anche due giovani afghani; uno di loro si chiama Najib, e racconta di aver perso il fratello nel tentativo di passare la frontiera. “Voglio che la sua storia si sappia”, aggiunge. Suo fratello era Jawed.
Lo incontriamo il giorno seguente in un piccolo caffè del centro, nella parte ottomana della città. Najib e Jawed hanno lasciato Ghazni, in Afghanistan, nel 2018. Di etnia hazara, avevano subito pressioni e minacce da componenti dell’Islam radicale, anche perché lavoravano per un’organizzazione occidentale che aiutava le donne. Sono scappati quindi in Iran, poi in Turchia, dove hanno lavorato illegalmente per quattro anni: “Impossibile farsi una vita lì, così decidemmo di muovere verso l’Europa, per costruirci un futuro”.
Sono riusciti a entrare in Grecia. “Molto molto duro il confine tra Turchia e Grecia, davvero”, commenta Najib. Poi Albania, Montenegro e infine Bosnia. “Abbiamo provato a entrare in Croazia, eravamo in tre, ma una volta attraversato il fiume è arrivata la polizia, ci hanno puntato le armi, ‘Fermi o vi uccidiamo’, ci hanno urlato. Ci hanno preso tutto, ci hanno picchiato ed espulso di nuovo in Bosnia”.
Dopo alcuni giorni a Bihać hanno provato ad attraversare la Sava, al confine Nord tra Bosnia e Croazia. “Era notte, siamo saliti in una piccola barca, eravamo in sei; non si vedeva nulla, non puoi accendere luci per non farti vedere dalla polizia, a un certo punto c’è stato un movimento, mio fratello e altri due sono caduti in acqua, ma non si vedeva niente, li abbiamo cercati così tanto! Ero disperato, sono andato a chiedere aiuto in un villaggio vicino al confine, ho bussato a una porta, ho chiesto di chiamare la polizia”.
Gli mostriamo la foto della tomba visitata a Tuzla: “Sì, è lui, è lì che sta ora mio fratello. Sono stato sotto shock tanto tempo, ora mi sto riprendendo e devo ricominciare a vivere, il mio sogno è fare il controllore di volo. E devo pensare a mia madre e mia sorella. Non posso più rimanere qui, ma se non hai soldi devi provare a passare da solo, nella foresta, e ho paura”. Qualche settimana dopo Najib è riuscito a entrare in Europa: “Questa volta ho avvisato mia madre prima di partire, me l’aveva fatto promettere; perché con Jawed non l’avevamo fatto, per non farla preoccupare”.
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