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Esteri / Intervista

I crimini internazionali nella Striscia di Gaza e le macerie della giustizia universale

Deir Al-Balah, Striscia di Gaza, ottobre 2024 © © Middle East Images/ABACA / ipa-agency.net / Fotogramma

L’esecuzione delle regole del diritto internazionale è ostacolata dagli Stati, che la distorcono in base al proprio tornaconto politico. Il caso palestinese lo dimostra. Dall’operato della Corte penale dell’Aia al ruolo sempre più decisivo dei contenziosi giuridici mirati con finalità politiche o sociali: Chantal Meloni, docente di Diritto penale all’Università Statale di Milano, scatta una fotografia precisa dello scenario globale

“Ciò che sta succedendo negli Stati Uniti è una tragedia per le prospettive della giustizia internazionale”, dice Chantal Meloni, docente di Diritto penale all’Università Statale di Milano e avvocato specializzato in crimini internazionali.

“Penso alla vittoria di Trump nelle ultime elezioni, favorita anche dal deludente approccio di Kamala Harris sul Medio Oriente, in piena continuità con quello di Biden, che ha consentito ciò che sta accadendo a Gaza dall’ottobre 2023”.

Proprio agli scenari globali del diritto penale internazionale Meloni ha dedicato il recente libro “Giustizia universale?”, edito da Il Mulino. Il saggio interroga anche l’efficacia della Corte penale internazionale (Cpi), presso la quale Meloni difende alcune vittime palestinesi nel procedimento in corso sui contestati crimini di guerra israeliani a Gaza.

Meloni, quali sono i profili criminali in discussione nell’attuale operazione militare israeliana a Gaza?
CM
Ciò che abbiamo visto in questi mesi è quasi l’intero catalogo dei crimini internazionali. Partiamo da ciò che è accaduto il 7 ottobre 2023. Il contesto è quello di un’occupazione belligerante del territorio palestinese, dunque di un conflitto armato. In questo quadro, gli eventi del 7 ottobre integrano possibili crimini di guerra e, a parere del procuratore della Corte penale internazionale Khan, possibili crimini contro l’umanità da parte dei leader di Hamas. Anche tutto ciò che è avvenuto da allora da parte israeliana rientra fra le violazioni gravi del diritto internazionale umanitario. Abbiamo visto la distruzione sproporzionata, talvolta intenzionale, di infrastrutture ed edifici civili; accuse all’esercito israeliano di avere preso di mira intenzionalmente i civili; il crimine di affamamento (starvation), per avere negato l’accesso al cibo e all’acqua alla popolazione civile; attacchi e uccisione di personale protetto dell’Onu; come anche attacchi a personale medico, alle ambulanze e agli ospedali stessi, persino alle sedi della Croce rossa internazionale, con la giustificazione, mai sostanziata nei fatti, che ospitassero combattenti o semplicemente membri di Hamas.
Già un anno fa ho usato il termine pulizia etnica per descrivere quanto sta avvenendo a Gaza. Non è di per sé un crimine, ma una descrizione giuridica di un insieme di pratiche. Un esempio sono gli ordini di evacuazione, un termine umanitario usato a sproposito da Israele per significare che la popolazione deve lasciare le proprie case, i propri villaggi e non può più tornare -il 90% ormai della Striscia di Gaza del Nord sostanzialmente è distrutto, quindi non più abitabile-. Poi questa pulizia etnica può essere declinata giuridicamente in tanti crimini: deportazione forzata, o anche genocidio, che però finora non è stato contestato dal procuratore della Corte penale internazionale. L’accusa di genocidio è stata invece portata dal Sudafrica in un importante caso presso la Corte internazionale di giustizia contro Israele: in questo caso le responsabilità penali non sono degli individui ma dello Stato. Comunque, nonostante le difficoltà nelle indagini, c’è senz’altro la possibilità di costruire solidi casi giuridici. A ciò si aggiunge quanto sta avvenendo nella Cisgiordania occupata, tra cui l’avanzamento delle colonie, che sono crimini di guerra.

Il procuratore Khan ha richiesto nel maggio scorso dei mandati di arresto nei confronti del primo ministro israeliano Netanyahu e dell’ex ministro della difesa Gallant, oltre che per tre leader di Hamas, per crimini contro l’umanità. Qual è la portata storica di queste richieste, e che resistenze stanno incontrando?
CM È la prima volta che la Corte penale internazionale chiede l’emissione di un mandato d’arresto per un capo di Stato sostenuto dai governi occidentali. E abbiamo visto delle reazioni avverse abnormi: non mi sorprende più di tanto quella degli Stati Uniti, visto che nemmeno riconoscono la Corte, mi hanno invece colpito alcuni Stati europei, che sono tra i fondatori. Stanno cercando di esercitare delle pressioni politiche, spesso travestite da atti giuridici, perché i mandati di arresto non siano emessi. A livello di procedimento giudiziario, a seguito di una contestazione del Regno Unito, i giudici della Camera preliminare, che devono autorizzare i mandati di arresto, hanno aperto le porte a una serie di pareri esterni: una procedura che non ha precedenti in questa fase del procedimento. Si sono così avute oltre sessanta richieste d’intervento, che hanno rallentato tutto. Nel frattempo sono trascorsi sei mesi, e i tre leader di Hamas di cui si era richiesto l’arresto sono stati uccisi con degli “omicidi mirati” (intesi come uso della forza letale diretta contro individui che si trovano in Paesi terzi) o in operazioni belliche a Gaza. La conferma dei mandati di arresto per Netanyahu e Gallant (che nel frattempo è stato licenziato), è nelle mani dei giudici; la Camera preliminare ha di recente cambiato composizione, con il rischio di nuovi rallentamenti, ma dal punto di vista tecnico è una decisione che potrebbe essere presa in breve tempo.

Chantal Meloni insegna Diritto penale alla Statale di Milano ed è avvocato specializzato in crimini internazionali

A inizio 2023 la Procura della Cpi aveva chiesto un mandato di arresto per Putin, nell’ambito del conflitto in Ucraina. La conferma era arrivata in soli 24 giorni. Che cosa racconta questa diversa solerzia nei casi palestinese e ucraino sui rischi di politicizzazione spesso contestati alla Corte?
CM Ritengo che la politicizzazione e i doppi standard di cui si discute spesso non siano della Corte penale internazionale, ma dei singoli Stati che formano la base della Corte. Nel caso dell’Ucraina, oltre quaranta Paesi nel giro di pochi giorni avevano presentato un referral alla Corte, una sorta di denuncia della situazione alle autorità dell’Aia, utilizzata per significare un supporto all’azione del procuratore nelle indagini contro Putin per i crimini commessi. Di per sé questo supporto non è negativo, tuttavia non vediamo altrettanto sostegno da parte dei Paesi europei rispetto alla grave situazione della Palestina, mentre emergono ostruzionismo e tentativi di politicizzazione. Ovviamente le implicazioni politiche sono enormi, ma la situazione dovrebbe essere trattata dalla Corte secondo criteri giuridici. In questo senso penso sia giusto parlare delle ingerenze a livello politico, per eliminarle. I tentativi di condizionamento ci sono e li dobbiamo riconoscere come tali per espellerli, se vogliamo che il sistema di giustizia penale internazionale funzioni. Se tutto viene confuso, si pensa che non esistano più le regole del diritto. Invece queste regole ci sono, ciò che non funziona è la loro esecuzione perché gli Stati la bloccano o la distorcono in base al loro tornaconto politico.

In una fase di diffusione dei conflitti e dei sovranismi, ha qualche motivo di ottimismo concreto per il superamento della politicizzazione del sistema?
CM Credo molto nella possibilità di un cambiamento che venga dal basso, attraverso le organizzazioni per i diritti umani e gli interventi di strategic litigation, cioè contenziosi giuridici mirati con finalità politiche o sociali. Queste campagne possono smuovere equilibri politici e magari fare avanzare il sistema in una direzione più giusta. E vedo una crescita esponenziale di questo movimento a livello internazionale: ci sono molte più risorse e quindi molta più forza negli interventi. Sono tuttora convinta della validità del progetto che sta dietro alla Corte penale internazionale, e sono una sua grande sostenitrice: una Corte permanente, non ex post (come per i tribunali dell’ex Jugoslavia e del Ruanda, che comunque hanno fatto un ottimo lavoro), dove ogni Stato conta tanto quanto l’altro, sulla base di un trattato internazionale. Però non può fare tutto da sola, la Corte. C’è bisogno dell’intervento delle autorità giudiziarie a livello domestico sul terreno dei crimini internazionali. Ogni Stato deve fare la sua parte, e purtroppo non è il caso del nostro Paese. È inaccettabile che in Italia, dove si è tenuta la conferenza di Roma del 1998 che ha portato alla firma degli accordi alla base della Cpi, non si sia ancora adeguata la legislazione interna allo Statuto della Corte. Anche perché abbiamo una valida proposta di codice completata già nel 2022. Questo è il punto: ogni Paese deve contribuire a far avanzare questo sistema. La strategic litigation può spronare alcuni Stati a progredire. Detto questo, il lavoro purtroppo aumenta, e la giustizia internazionale probabilmente non potrà raggiungere tutti nè occuparsi di ogni singolo contesto di commissione di crimini di massa, quindi non sarà mai perfetta, come non è mai perfetta la giustizia. Però ci sono grandi spazi di miglioramento.

Può fare qualche esempio di strategic litigation promettente che riguardi il caso palestinese?
CM Per me una delle priorità, visto il supporto militare ed economico che i Paesi europei danno allo Stato di Israele, è intervenire sull’export di armi. A Berlino il Centro europeo per i diritti umani e costituzionali (Ecchr), con il quale collaboro, è già al sesto ricorso amministrativo nel giro di pochi mesi contro il governo tedesco per avere esportato armi in un Paese in guerra, Israele, accusato di commissione di crimini internazionali, e quindi in contravvenzione rispetto alle leggi internazionali e tedesche. Parliamo, per esempio, di esportazioni di armi pesanti, bazooka anticarro, usate a Gaza anche per abbattere palazzi. Questi ricorsi stanno incontrando molti ostacoli perché le corti amministrative tendono a non volere entrare in valutazioni considerate politiche come l’export di armi, ma nonostante tutto gli avvocati tedeschi vanno avanti. Ci sono altre organizzazioni che stanno facendo altrettanto in Paesi europei come Olanda, Francia, Svezia e Norvegia. E forse c’è il potenziale perchè qualcosa che si muova anche in Italia. Come è emerso su questo giornale, al di là delle dichiarazioni del nostro governo, l’Italia starebbe ancora contribuendo ad armare Israele, perlomeno attraverso la fornitura di attrezzatura, assistenza tecnica da remoto e pezzi di ricambio per aeromobili M-346 della Alenia Aermacchi, venduti in anni passati dalla Leonardo con finalità di addestramento. Sono novità che espongono l’Italia a potenziali pesanti ricadute in termini di violazione del diritto internazionale. Vedremo se ci saranno sviluppi e contestazioni.

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