Diritti / Opinioni
Norvegia, chi ha paura della memoria
A cinque anni dalle stragi di Oslo e Utøya, il monumento di ricordo delle 77 vittime è osteggiato da una parte della popolazione
La memoria storica, collettiva, è linfa vitale per ogni comunità umana. Ma, per sua natura, è urticante e difficile da maneggiare. È spesso portatrice di sofferenze e divisioni, ma trova la sua ragion d’essere proprio come pungolo, per ciascun cittadino, a esercitare un proprio ruolo critico e, se possibile, creativo, a prescindere da quel che pensa, vuole o pretende il potere di turno.
È in corso da qualche tempo in Europa, per la precisione in Norvegia, un dibattito che avviene lontano dai riflettori dei media continentali, ma che bisognerebbe seguire con attenzione. Riguarda il memoriale per le stragi di Oslo e Utøya, compiute il 22 luglio 2011 da Andres Breivik, all’epoca trentaduenne. In due successivi momenti, nell’arco della stessa giornata, Breivik uccise 77 persone, otto facendo esplodere un’autobomba nell’area degli uffici governativi, le altre 69 a colpi di fucile: erano giovanissimi aderenti al movimento giovanile laburista riuniti per un campo estivo nell’isoletta di proprietà del partito.
Il progetto di memoriale era stato affidato tre anni fa a un artista svedese, Jonas Dahlberg, che aveva concepito un’idea complessa e affascinante, nella drammaticità del ricordo da evocare. Il cuore era previsto della penisola di Sørbråten, proprio di fronte a Utøya. Dahlberg prevedeva di aprire un varco nella roccia, largo tre metri, in un piccolo promontorio sul mare. Una ferita, coi nomi delle vittime scolpiti sulle pareti, in grado, a suo avviso, di condurre i visitatori a compiere “l’esperienza fisica di qualcosa di sottratto, la perdita improvvisa e definitiva di quelli che sono morti”.
Nel progetto di Dahlberg, si sarebbe arrivati all’apertura nella roccia attraverso un percorso nel bosco di dieci minuti, per avere un tempo di preparazione e riflessione. Le pietre e gli alberi sottratti a Sørbråten per creare il memoriale, avrebbero composto l’altra parte del monumento, sul luogo dell’esplosione a Oslo: un anfiteatro concepito come luogo di dialogo e tolleranza. Il progetto di memoriale si è però arenato e rischia d’essere abbandonato per l’opposizione dei residenti di Sørbråten. Sono ventidue persone e hanno aperto una causa legale contro il governo norvegese, sostenendo che il memoriale deturperebbe il paesaggio e potrebbe produrre “conseguenze psicosociali”. La memoria -evidentemente- è davvero urticante e la reazione dei residenti dimostra come il monumento, cioè il ricordo vivo dell’azione compiuta da Andres Breivik, potrebbe turbare gli equilibri emotivi, culturali e politici della piccola penisola ma anche della Norvegia e dell’intera Europa.
21. Gli anni di “carcerazione preventiva” inflitti a Andres Breivik: è la pena massima prevista dall’ordinamento norvegese, che non prevede l’ergastolo. Ma è una pena prorogabile in caso di pericolosità del condannato
Breivik ha sempre rivendicato il proprio gesto come un’azione politica “contro il multiculturalismo”, vagheggiando una “identità norvegese nativa”. Al processo per la doppia strage, la pubblica accusa aveva chiesto di considerare l’imputato “incapace di intendere e volere”, ma la giuria ha optato per la condanna alla pena massima prevista dall’ordinamento norvegese. Una sentenza ben più scomoda della consolante ipotesi della dichiarazione di infermità mentale. Breivik, pur nella mostruosità del suo gesto, ha parlato e tuttora parla dal carcere in una lingua -l’odio per gli stranieri e per l’islam, l’esasperazione dell’identità- che sta avendo ampia circolazione nella società europea. Un memoriale come quello pensato da Dahlberg forse ci aiuterebbe a considerare un aspetto riassunto nel titolo del libro-inchiesta, pubblicato in Italia da Rizzoli, che la giornalista Åsne Seierstad ha dedicato a Breivik: “Uno di noi”.
Lorenzo Guadagnucci è un giornalista del “Quotidiano Nazionale”. Per Altreconomia ha scritto, tra gli altri, “Noi della Diaz” e “Parole sporche”
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