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Violazioni contro i migranti e repressione. Così Saïed si prepara al voto in Tunisia

Il presidente tunisino Kaïs Saïed durante le celebrazioni della Giornata dei martiri, il 9 aprile 2024 © HAMMI/SIPA/Shutterstock / ipa-agency.net / Fotogramma

Il presidente-autocrate stringe ulteriormente la morsa su libertà politiche, civili e di espressione, intensificando gli attacchi contro le persone in transito, deportate anche nel deserto. A pochi giorni dalle elezioni del 6 ottobre un gruppo di famigliari di oppositori incarcerati ha trasmesso una nuova comunicazione alla Corte penale internazionale. Ma l’Ue e l’Italia continuano a legittimare e a finanziare il regime

Al momento quasi 200 oppositori politici sono rinchiusi nelle carceri tunisine con accuse fasulle. Per denunciare l’oppressione e le crescenti violazioni contro le persone in movimento, gli avvocati dei familiari di sei delle persone incarcerate a fine settembre hanno presentato una nuova comunicazione alla Corte penale internazionale con sede all’Aia.

Uno dei nodi fondamentali è il ruolo dell’Unione europea e dell’Italia nel legittimare il governo di Tunisi, stringendo accordi soprattutto in tema di migrazioni. “Saïed sta usando i migranti come capri espiatori per distogliere l’attenzione dalla crisi nel Paese e ottenere il sostegno dell’Europa”, spiega ad Altreconomia Yusra Ghannouchi, una delle famigliari che fanno parte della comunicazione.

Suo padre è Rached Ghannouchi, leader del più grande gruppo di opposizione tunisino, il partito islamista moderato di Ennahda. “L’Italia purtroppo sta fornendo il massimo sostegno finanziario, simbolico e politico al regime di Saïed. Questo è poco lungimirante: l’Ue e l’Italia avrebbero dovuto imparare dalle dittature passate che un regime non può mai fornire stabilità e prosperità, ma porta solo a un peggioramento dei problemi”.

La Commissione europea ha da poco annunciato l’intenzione di inviare osservatori indipendenti in Tunisia per indagare le violazioni contro i migranti ma l’Italia continua il “partenariato” con il Paese. Alla narrazione internazionale si contrappone il clima interno, inasprito dalla profonda crisi economica: “Il regime ha visto diminuire la propria popolarità ed è quindi diminuita anche la sua tolleranza nei confronti di qualsiasi critica, soprattutto in vista delle elezioni”, continua Ghannouchi.

Le elezioni presidenziali sono state indette dallo stesso Saïed il primo luglio e ci si aspetta siano le meno libere dalla rivoluzione del 2011, che aveva portato alla destituzione del dittatore di lunga data Zine El-Abidine Ben Ali. Da allora la Tunisia aveva compiuto un processo di democratizzazione, che aveva portato molti analisti a definire quello tunisino come l’unico movimento di successo delle cosiddette “Primavere arabe”.

Gli avvenimenti degli ultimi mesi raccontano però una storia molto diversa. Dei 17 candidati per correre alla presidenza, 14 sono stati arrestati o dichiarati ineleggibili dalla commissione elettorale tunisina. Uno dei tre candidati rimasti è stato condannato a 20 mesi di carcere il 19 settembre scorso. Manca un meccanismo indipendente di monitoraggio del voto e l’Alta autorità indipendente per le elezioni è sotto il controllo di Saïed dal 2022. L’inizio ufficiale della campagna elettorale è stato poi segnato da una nuova ondata di arresti, che tra il 12 e il 13 settembre, ha colpito 97 membri di Ennahda, accusati di cospirazione. Il presidente sta facendo di tutto per ottenere altri cinque anni al potere.

“Ci sarà un alto astensionismo”, commenta una giornalista tunisina raggiunta da Altreconomia, che per ragioni di sicurezza preferisce rimanere anonima. Spiega che l’unico candidato rimasto in gara oltre a Saïed non gode di grande popolarità e porta avanti politiche simili. A fronteggiare la situazione rimane “una società civile logorata da anni di repressione”.

Il presidente in carica è stato eletto per la prima volta nel 2019 come candidato per il cambiamento, promettendo di eliminare la corruzione e fare i conti con la povertà nel Paese. Proprio con la scusa di fronteggiare meglio la crisi economica, in un colpo di Stato del 2021, Saïed ha destituito il Parlamento eletto e ha accentrato il potere esecutivo, legislativo e giudiziario. Una nuova costituzione nel 2022 ha stabilito un sistema presidenziale. Il 22 settembre dello stesso anno la Corte africana dei diritti dell’uomo e dei popoli aveva “sanzionato” la Tunisia per la sua deriva autoritaria e le aveva dato due anni per tornare a una democrazia costituzionale. Ma la situazione continua a peggiorare.

“Saïed crede che il suo ruolo gli sia stato dato da dio, quindi mi aspetto che vada avanti per la sua strada”, continua la giornalista. “Temo che altri cinque anni di suo governo distruggeranno completamente tutto ciò che era stato costruito dopo l’indipendenza: I servizi, le infrastrutture, l’economia, le libertà civili. Saïed non ha i mezzi per gestirli. Siamo tornati a tempi che pensavamo fossero finiti con la rivoluzione”.

“Stiamo vedendo un deterioramento delle condizioni nelle carceri: sovraffollamento, mancanza di accesso a cure mediche e avvocati e restrizioni per le visite familiari”, aggiunge Yusra Ghannouchi. Da inizio 2023 suo padre Rached ha trascorso oltre 519 giorni in prigione all’età di 83 anni, dopo essere sopravvissuto alla reclusione durante il regime pre-rivoluzionario.

Anche Chaima Issa, autrice, politica e attivista è prima andata in prigione e ora si trova agli arresti domiciliari per alcune dichiarazioni pubbliche. Suo figlio Jaza Cherif è uno dei pochi familiari a vivere ancora a Tunisi. Ad Altreconomia racconta che anche per lui la vita è dura: “la polizia viene a casa e subiamo intimidazioni”. “In Tunisia regna un clima di terrore. La magistratura non è più libera e tanti giovani sono stati incarcerati solo per aver espresso le loro opinioni sui social media, tutti sono in pericolo”.

Alla conferenza stampa all’Aia di fine settembre anche David Yambio, co-fondatore della Ong Refugees in Libya, ha raccontato il difficile lavoro di documentare la situazione dei migranti in Tunisia. Solo nelle regioni di Sfax, El Amra e Jebiniana vivono oltre 27mila persone migranti, da 16 Paesi diversi. La maggior parte provenienti dal Sudan, dove dal 15 aprile 2023 si combatte una devastante guerra civile. Tra questi, ci sono circa 7mila donne, duemila bambini e 500 minori non accompagnati. Le donne incinte si stimano in oltre 400, con circa il 25% di gravidanze come conseguenza di violenza sessuale da parte della polizia e delle gang tunisine.

I migranti in queste regioni vivono in campi, senza sostegno, racconta Yambio, spesso mancano cibo, acqua e cure mediche. Sono esclusi dalla vita civile, non possono prendere i mezzi pubblici o ricevere denaro dalle famiglie. “Si diffondono colera, tifo e febbre gialla. Alle Ong è vietato prestare aiuto”. Molti bambini lasciati senza medicine muoiono. Gli uomini che vanno in cerca di cibo spesso vengono catturati dalla polizia e torturati o portati nel deserto al confine con Algeria o Libia e lasciati lì, senza telefoni, cibo o acqua.

A marzo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni ha denunciato il ritrovamento di almeno 65 corpi di migranti in una fossa comune in Libia, vicino al confine con la Tunisia. Nel report si legge anche di 28 morti e 80 dispersi, tra cui donne e bambini, in seguito ad espulsioni ad agosto 2023 nell’area desertica di confine.

I procuratori della Cpi stanno già indagando sulle accuse di crimini contro i migranti in Libia. Gli avvocati che supportano la comunicazione sperano che si possa aprire un dossier anche sui crimini simili commessi in Tunisia, Paese membro della Corte. Dopo un primo documento simile inviato l’anno scorso, in quello attuale si aggiungono i dati raccolti da Refugees in Libya e circa 20 testimonianze di tortura, espulsioni, maltrattamenti e violenza sessuale. Questi crimini sono diffusi e sistematici e rappresentano crimini contro l’umanità, spiega l’avvocato Dixon.

L’avvocata Giulia Vicini lavora sulla Tunisia per conto dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). Nonostante le citate violazioni e la questione della deriva autoritaria del Paese sollevata molti tribunali italiani, spiega Vicini, Roma continua a legittimare il regime di Saïed. Sia con la riconferma a maggio della Tunisia nella lista dei Paesi sicuri, sia con la firma di accordi internazionali, che propone una narrazione del Paese come “partner affidabile”.

Il 16 luglio 2023 Tunisi e Bruxelles hanno firmato un Memorandum di intesa che include oltre 105 milioni di euro per la “gestione delle frontiere”. Il 20 ottobre 2023 è seguita poi la firma di un altro accordo tra i ministri degli Esteri italiani e tunisini per il controllo dei flussi, in cambio dell’autorizzazione annuale all’ingresso in Italia di 4.000 lavoratori tunisini non stagionali.

Altri due decreti italiani hanno promesso alla guardia nazionale tunisina, che funge anche da “guardia costiera”, sei motovedette e nove milioni di euro di carburante. Secondo fonti Asgi, tre motovedette sarebbero già state recapitate mentre non si sa nulla su consegne o condizioni poste ai nove milioni. “Si ricalca il dialogo storico con la Libia, con finanziamenti e supporto per pattugliare il mare e impedire le partenze”, sottolinea Vicini. L’inasprirsi della retorica xenofoba in Tunisia e questa esternalizzazione delle frontiere europee hanno coinciso con “un peggioramento drastico della situazione di molte persone migranti che vivevano in Tunisia da tanti anni, e ora sono dovute scappare”.

Uno scenario oscuro, conclude Yusra Ghannouchi: “È deludente e scioccante che queste nazioni democratiche stiano dando a Saïed il sostegno di cui ha bisogno per consolidare la dittatura”.

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