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Economia / Opinioni

Finanza, tecnologia e armi. Dove va a parare il “Piano Draghi” per l’Unione europea

Mario Draghi e Ursula von der Leyen presentano il "Rapporto sulla competitività dell'Europa" © Wiktor Dabkowski/ZUMA Press Wire/Shutterstock / ipa-agency.net / Fotogramma

I numeri forniti dall’ex presidente del Consiglio nel suo corposo rapporto presentato a inizio settembre mostrano come gli Stati Uniti negli ultimi vent’anni abbiano sfruttato l’Ue e pregiudicato una vera innovazione tecnologica. Come uscirne? La ricetta è sempre quella: finanziarizzazione austera, puntando sulla “difesa”. Ma il gioco per i debiti sovrani dei singoli Stati rischia di non reggere. L’analisi di Alessandro Volpi

Il voluminoso “Rapporto Draghi” sembra muovere da una prima, significativa, presa d’atto, suffragata da una vasta messe di dati. È evidente che gli Stati Uniti sono cresciuti molto più dell’Unione europea negli ultimi venti anni perché hanno sfruttato la stessa Unione, ponendola in condizione di minorità.

Attraverso la finanziarizzazione hanno infatti ampiamente fatto incetta del risparmio europeo, hanno utilizzato il dollaro e il debito in dollari per emarginare l’euro e per finanziare la propria crescita, altrimenti assai più faticosa, hanno impedito lo sviluppo di un’innovazione tecnologica europea perché hanno costruito monopoli in grado di cancellare le aziende e persino la ricerca pubblica degli Stati europei, hanno gestito i prezzi dell’energia per rendere difficile l’approvvigionamento produttivo, trovando solo nella Russia un ostacolo significativo.

Su scala globale hanno occupato tutti gli spazi dove l’Europa poteva muoversi, riuscendo a fare nei confronti degli Stati del Vecchio continente quello che non sono riusciti a fare con la Cina. Con la politica degli alti tassi, dopo l’avvio dell’inflazione, hanno poi indotto la Banca centrale europea a strangolare le già fragili economie produttive dei vari Paesi. Hanno impedito, al tempo stesso, che il mercato statunitense fosse la destinazione utile per molte produzioni europee a significativo valore aggiunto. Hanno, infine, attratto in terra americana alcune filiere produttive europee, rendendo l’occupazione e la generazione di beni e servizi sempre più precaria.

In estrema sintesi, paiono confessare i numeri forniti da Draghi, l’atlantismo ha ucciso l’Europa, senza grande distinzione tra democratici e repubblicani.

A questa chiara affermazione si aggiungono due ulteriori elementi. Il primo è costituito dalla coscienza della fine della globalizzazione per cui non sono più possibili catene di produzione del valore lunghe mentre il secondo è rintracciabile nella ferma convinzione di Draghi di dover fare a meno della Russia e delle sue forniture energetiche, anche alla luce della prospettiva di un conflitto con Mosca.

Da simili analisi discendono molte delle ricette del rapporto che potrebbero essere riassunte sotto la voce “resilienza-autosufficienza”. Per recuperare la vitalità persa, l’Europa dovrebbe tornare a essere prima di tutto produttiva, svincolandosi dalla morsa americana ed evitando la nuova sottomissione cinese. Per farlo servono però tante risorse finanziarie, pari a circa 750-800 miliardi di euro l’anno tra capitali pubblici e privati. Il tema, dunque, diventa quello del loro reperimento.

La soluzione proposta da Draghi è netta e si costruisce sulla finanziarizzazione. In altre parole, occorre creare nel più breve tempo possibile un mercato unico dei capitali in Europa dove far confluire il risparmio dei cittadini dei vari Stati evitando che tali risorse siano drenate dai grandi fondi americani, un tratto questo già presente nel “Rapporto Letta” sulla competitività.

Simili risparmi, più importanti del gettito fiscale che dovrebbe anzi essere in parte limitato per incentivare la stessa finanziarizzazione, sarebbero lo strumento attraverso cui collocare i titoli di un debito comune europeo e acquistare i titoli azionari e obbligazionari delle imprese europee. In quest’ottica i cittadini e le cittadine del Vecchio continente diventerebbero ipso facto soggetti finanziari che deriverebbero una parte del loro reddito dai rendimenti dei titoli pubblici e privati europei. Naturalmente tale obiettivo ha bisogno di colossi bancari e assicurativi europei in grado di contrastare l’attuale strapotere dei fondi Usa.

È interessante rilevare che l’idea della finanziarizzazione concepita da Draghi prevede un debito comune europeo destinato a fare inevitabile concorrenza ai debiti dei singoli Stati, obbligati a pagare interessi più alti proprio per la presenza del più solido debito comune. Quindi, suggerisce Draghi, mentre si ipotizza un debito comune, dovranno ridursi i debiti dei singoli Stati con una severa politica di austerity anche perché, a differenza di quanto praticato dall’ex presidente dalla Bce, non è prevista nessuna monetizzazione del debito: in sintesi la Banca centrale europea continuerà a non comprare il debito dei singoli Stati nazionali che dovranno inevitabilmente contrarre la loro spesa pubblica, facendo affidamento solo sulla spesa pubblica europea.

Ma allora il punto centrale diventa proprio questo: in quale direzione dovranno muoversi i 750-800 miliardi di euro di finanziamenti europei stimati come necessari da Draghi? La risposta è purtroppo semplice: verso quei settori dell’innovazione tecnologica che sono “dual use”, in grado di assolvere al duplice compito di ricostruire ex novo un sistema di difesa europeo in sostituzione dell’ombrello americano, incerto in futuro e comunque espressione di sudditanza, e di sviluppare tutte le ricadute “civili” di questo vasto ambito dell’industria militare rispetto al quale, continua il rapporto dell’ex presidente del Consiglio, bisogna eliminare i vincoli alle fusioni e le tante regole a tutela della concorrenza applicate fino ad oggi. Finanza, tecnologia e armamenti risultano così gli assi portanti della “rinascita” europea secondo Mario Draghi.

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

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