Interni / Opinioni
La lezione dei Quindici di Piazzale Loreto. Per non farsi indicare la strada dai fascisti
Sono passati ottant’anni dall’eccidio dei quindici martiri di Piazzale Loreto a Milano, che diedero la vita per la libertà della città e della Repubblica. I fascisti, e i giornali piegati al regime, hanno sempre sostenuto la tesi della rappresaglia, coprendo così la loro straordinaria (e temuta) attività nella Resistenza. L’intervento di Massimo Castoldi, studioso di quei fatti e nipote di uno degli uccisi, Salvatore Principato
Pubblichiamo l’intervento pronunciato in Piazzale Loreto a Milano lo scorso 10 agosto da Massimo Castoldi, nipote di Salvatore Principato, maestro elementare, socialista figura di primo piano dell’antifascismo milanese durante la dittatura, ucciso a Milano in Piazzale Loreto il 10 agosto 1944.
Il monumento ai martiri di Piazzale Loreto alle mie spalle fu inaugurato il 10 agosto 1961. Era sindaco di Milano Gino Cassinis, assessore ai Lavori pubblici Aldo Aniasi. Ai nomi dei Quindici martiri e alla scritta “Alta l’illuminata fronte caddero nel nome della libertà”, che erano già sul cippo precedente, posto qualche decina di metri più in là sul luogo effettivo dell’eccidio, subito dopo la Liberazione, si aggiungevano gli stemmi del Comune di Milano e della Repubblica italiana. Il significato del monumento è intuitivo: dobbiamo salvaguardare la memoria e l’identità di quei quindici uomini, nel sacrificio dei quali la città di Milano e la Repubblica italiana riconoscono un baluardo della libertà e dei diritti dei propri cittadini.
Quel giorno Aniasi ribadì anche la stretta contiguità tra Risorgimento e Resistenza, stigmatizzando il processo che più volte si volle fare ai loro protagonisti, per gettare discredito sulle più belle pagine della storia d’Italia, e si fece interprete del significato effettivo di quella celebrazione ben riassunto dal titolo dell’Avanti! del giorno successivo: “Realizzare ciò per cui morirono!”, che io ho recentemente parafrasato in “Realizzare ciò per cui vissero!”. Ovvero pace, libertà, diritti civili, giustizia sociale.
Conosciamo solo in parte le ragioni per le quali sono stati uccisi. Almeno i meno giovani erano figure di primo piano nella lotta contro il fascismo e il nazismo a Milano e in contatto tra loro. Sicuramente erano tra gli organizzatori degli scioperi del marzo 1944 e in relazione con gruppi partigiani che operavano sulle montagne.
Ma troppi documenti mancano oggi all’appello, soprattutto interrogatori, inchieste, in qualche caso anche carte relative agli arresti, perché si possano ipotizzare nessi causali stretti tra la loro attività e la decisione di condannarli a morte. La cautela mi sembra un comportamento dovuto e ragionevole. Qualcosa si può ancora accertare e ne darò conto.
Oggi si tende talvolta a mettere al centro di questa storia la giustificazione dell’eccidio come rappresaglia per alcuni episodi di guerriglia partigiana avvenuti nella zona, ovvero quello che da subito fascisti e nazisti scrissero su un cartello posto per poche ore tra i corpi, che fu ribadito anche dall’allora fascista Corriere della Sera di Ermanno Amicucci, che giunse all’aberrante intitolazione “Delittuose azioni di sicari esemplarmente punite”, che anche per quel titolo fu condannato per collaborazionismo dalla Corte d’assise straordinaria di Milano il 30 maggio 1945.
La guerriglia partigiana di quei giorni, legittima e inevitabile, fu certamente il pretesto per annientare questi uomini. La causa, il motivo principale della loro tragica fine in Piazzale Loreto è da cercarsi altrove, ovvero nella loro attività nella Resistenza. Sappiamo molto bene quanto la distinzione tra cause e pretesti e poi la gerarchia delle cause sia determinante nello scrivere la storia e nell’orientarne l’interpretazione: e io non consento di farmi indicare la strada da nazisti e fascisti.
La storia dei Quindici è molto complessa e attraversa l’intero Ventennio. Fino a quando sono stati in vita gli uomini e le donne che hanno condiviso le loro battaglie e le loro scelte, che li hanno conosciuti, quando si parlava di Piazzale Loreto si parlava prevalentemente di scelte ideali, di battaglie civili, dei vivi, non solo dei morti, ed è importante rileggere quello che si diceva.
Voglio ripetere almeno le parole di Fernanda Bagnoli, moglie di Umberto Fogagnolo, con le quali apro il mio libro su Piazzale Loreto: “E direi che neanche oggi è stato sufficientemente capito dai più, quali sono stati i valori che hanno determinato il comportamento, in quel momento storico, di tanti uomini come mio marito o come Giulio Casiraghi; uomini che hanno pagato per le loro scelte, le loro libere scelte; uomini che ci hanno insegnato come, al di sopra delle beghe dei partiti, di tutti i partiti, al di sopra dell’amore per il potere che corrompe, e della politicheria che immiserisce, ci stanno valori quali la solidarietà umana, la bontà, il senso della giustizia per tutti, per i quali ha realmente un senso vivere e morire…”.
Umberto Fogagnolo, dirigente azionista, e Giulio Casiraghi, tecnico comunista, hanno dedicato insieme la loro vita per la nostra libertà. Questo dobbiamo scrivere e spiegare che cosa significa alle nuove generazioni.
Questo monumento ci chiede di restituire ai morti la loro storia e la loro identità. Rimettere tra i morti quel cartello sarebbe un oltraggio alla loro memoria.
Dovremmo sempre più ridare la parola ai Quindici, e impegnarci a realizzare il progetto della loro troppo breve esistenza. Dieci anni fa lessi in questa piazza l’accorato appello che mia nonna, Marcella Chiorri, scrisse con Grazia Curiel, sorella di Eugenio, l’intellettuale antifascista ispiratore di gran parte dell’antifascismo milanese, ucciso dai fascisti in piazzale Baracca, al neopresidente degli Stati Uniti d’America John Fitzgerald Kennedy, il 28 ottobre 1962, nei giorni della cosiddetta crisi dei missili di Cuba. Ricordavano il sacrificio dei giovani resistenti in Europa spinto “oltre ogni limite dell’umana sopportazione, per ridare con l’indipendenza dignità e libertà ai popoli”, una libertà che nessuno avrebbe dovuto avere il diritto di calpestare.
Dichiaravano con fermezza l’opposizione “al ripetersi di atti di forza”, che sarebbero serviti solo “a portare l’umanità sull’orlo della guerra”, perché, scrivevano, la pace era “la consegna lasciataci dai nostri Morti”.
Oggi siamo di nuovo di fronte alla guerra, ritenuta da troppi giusta e inevitabile, al sacrificio di migliaia di vite umane per imperscrutabili ragioni della storia, all’imposizione della propria giustizia con la forza delle armi e della violenza, come se alcuni popoli avessero più diritto a esistere di altri. Noi italiani sappiamo che questo è stato uno dei dogmi del fascismo, che è stato educazione alla guerra. Per fare ciò bisognava ingannare il popolo, depauperare la storia della sua dimensione valoriale, mitizzare da un lato e denigrare dall’altro, trascurandone alcuni protagonisti e mistificandone altri.
La lezione dei Quindici si traduce nell’opporsi a tutto questo, ed è il solo modo per rispettarne e onorarne veramente la memoria. Questo monumento ci esorta alla pace, alla giustizia sociale, alla conquista di nuovi diritti civili, ci dice che la guerra è sempre determinata dagli interessi di pochi potenti, che si permettono di calpestare l’indipendenza, la dignità, la libertà, il diritto alla vita di uomini, donne e bambini, con azioni che nessuna ragion di Stato può giustificare, e sono quindi i traditori non i difensori dei loro popoli, delle sofferenze dei quali sono i maggiori responsabili, così come i fascisti sono stati i traditori dell’Italia, non i patrioti.
A ottant’anni dall’eccidio, nel rispetto della storia dalla quale provengo, guardo con preoccupazione ogni volta che si parla di Piazzale Loreto, senza valorizzare le vite e gli ideali dei Quindici martiri, e tendo la mano a tutti coloro, più o meno giovani, che sono ancora disposti a cercare di ascoltarne la parola, per realizzare insieme ciò per cui vissero e per cui morirono.
Massimo Castoldi è membro della Commissione per l’Edizione nazionale delle opere di Giovanni Pascoli e ha insegnato Filologia italiana all’Università degli Studi di Pavia. Filologo e critico letterario, si è occupato di memorialistica della Resistenza e delle deportazioni, collaborando con la Fondazione Memoria della Deportazione, che ha diretto fino al 2017. Per l’editore Donzelli ha curato il volume “1943-1945: i ‘bravi’ e i ‘cattivi’. Italiani e tedeschi tra memoria, responsabilità e stereotipi” (2016) ed è autore di “Insegnare libertà. Storie di maestri antifascisti” (2018), con il quale ha vinto il Premio The Bridge. Nel 2020, sempre per Donzelli, ha pubblicato il saggio “Piazzale Loreto. Milano, l’eccidio e il ‘contrappasso'”.
© riproduzione riservata