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Ambiente / Reportage

Un’agricoltura diversa è possibile: i risicoltori tracciano il solco

Giuseppe Oppezzo, risicoltore del vercellese, durante la semina tradizionale, in cui i semi vengono sparsi nell’acqua © Max Hirzel

Siccità, semi e varietà: la filiera del riso è costretta a ripensarsi. Ripartendo da soluzioni sostenibili già adottate da diverse aziende e superando i falsi miti come quello del minor consumo d’acqua della “semina all’asciutto”. Il nostro viaggio

Tratto da Altreconomia 268 — Marzo 2024

“In inverno siamo tutti amici, poi nel corso della stagione cominci a guardarti con sospetto, d’altronde la disperazione può spingerti a fare qualsiasi cosa”. Roberto Schiavetti, produttore di riso di Caresana, nel vercellese, riassume così la “guerra dell’acqua” deflagrata con la siccità del 2022. Agricoltori dello stesso distretto, vicini di campo, pronti a spostare un asse di sbarramento per far defluire l’acqua dal fosso e inondare le preziose piantine del proprio terreno a discapito di quello altrui. Scattano le ronde notturne e d’un tratto gli amici diventano potenziali nemici. 

L’anno successivo, dopo 16 mesi di carenza idrica, il paesaggio è segnato dalla polvere e dalla paura di una seconda stagione senz’acqua. Da tempo non si vede più il “mare a quadretti” caratteristico delle pianure del riso: gli agricoltori hanno adottato il metodo di semina all’asciutta e il motivo non è la mancanza d’acqua. 

“Da circa 10-15 anni la spinta del mercato ha portato alla diffusione di sementi cisgeniche collegate a specifici erbicidi -spiega Giuseppe De Santis, agronomo, tecnico della Rete Semi Rurali– il cui manuale di utilizzo richiede la semina all’asciutta perché in acqua perdono parte dell’efficacia”. Il quadro risulta quindi più complesso e la scelta di questo metodo determina altre conseguenze oltre al cambio di paesaggio.

Ombretta Bertolo dell’associazione Ovest Sesia, in cui Cavour nel 1853 riuscì a riunire 3.500 agricoltori per gestire in comune il bene acqua, aiuta a capire il sistema di rete irrigua basato sul Canale Cavour e i fiumi Po, Dora e Sesia: “La semina all’asciutta non implica minore utilizzo d’acqua -spiega Bertolo- ma semplicemente sposta l’irrigazione da marzo-aprile a giugno, sovrapponendosi a tutte le altre colture che la necessitano, come il mais. E la mancata inondazione dei campi comporta l’abbassamento della falda acquifera di un sistema basato su colature e risorgive”.

In questo senso il metodo implica uno spreco d’acqua maggiore e non il risparmio che il termine “asciutta” porterebbe a pensare. “Il comparto risicolo è come un enorme invaso di 250mila ettari: la risaia prende ma poi restituisce l’acqua dopo averla usata -continua Bertolo-. Noi a regime preleviamo dai fiumi 1,5 miliardi di litri d’acqua, ne distribuiamo 1,7 di cui i 200 milioni in più vengono dall’attivazione di fontanili e risorgive; ne restituiamo ai fiumi 1,2 miliardi e quelli mancanti vanno in evapotraspirazione, quindi in nuvole e pioggia”. 

Ugo, uno dei titolari dell’azienda Una Garlanda, raccoglie alcuni chicchi dalla prima macchina per la lavorazione del risone, nella quale il chicco viene sgranato per eliminare la lolla (buccia), che verrà comunque utilizzata © Max Hirzel

L’acqua non utilizzata a marzo e aprile, oltre ad abbassare la falda, finisce direttamente al Po in un periodo in cui non serve. Quando trattenuta con il metodo tradizionale, invece, l’acqua viene rilasciata più tardi, lentamente e a ritmo costante, garantendo al fiume più disponibilità nei mesi di maggiore carenza. Il problema riguarda soprattutto la mancata inondazione dei campi siti a Nord, anche perché le aziende che per prime beneficiano dell’attivazione dei canali trattengono l’acqua oltre il dovuto per l’angoscia di trovarsi senza. Ciò che nel 2022 ha determinato la perdita di raccolti in Lomellina, in provincia di Pavia, a causa della mancanza d’acqua percolata dai campi a Nord che alimentava la falda e le risorgive. La coincidenza temporale di richiesta d’acqua è anche all’origine di un più ampio conflitto tra comparti, riso contro mais, in particolare quello coltivato nei campi a Sud di Milano. 

“L’industria ha determinato un certo tipo di consumo e di produzione. Il mercato tende a un’uniformità che parte da un impoverimento dei saperi” – Giuseppe De Santis

Vedere la risaia come un sistema fa risaltare le prospettive individuali che ne alterano il funzionamento e induce a tornare sulla scelta di semina. Giuseppe Oppezzo e il figlio Marco sono tra i pochi a usare il metodo tradizionale nella stessa zona di Caresana, pur rimanendo in ambito di agricoltura convenzionale. “La semina all’asciutta è più semplice e richiede meno lavoro -spiega Giuseppe- per due mesi puoi evitare di andare ogni giorno a controllare il livello d’acqua, fai meno passaggi e con i diserbanti di oggi hai più certezze in termini di resa. Poi il tradizionale devi saperlo fare e non tutti hanno mantenuto certe conoscenze”. 

Semplificazione del lavoro e massimizzazione della resa sono lo stesso concetto alla base della diffusione di sementi ed erbicidi associati, che ha determinato il passaggio all’asciutta: si tratta però di capire quanto gli agricoltori siano stati liberi di scegliere 15 anni fa e quanto lo siano oggi, senza mettere a rischio la resa del proprio raccolto dopo anni di monocoltura e impoverimento progressivo dei terreni.

Due mediatori di lunga esperienza si confrontano alla Borsa del riso di Vercelli in merito alla qualità di un campione di risone. La fase di vendita tra il produttore e la riseria acquirente viene gestito tramite l’opera di un mediatore © Max Hirzel

“Oggi ce l’hanno con noi e ci accusano di inquinare ma i diserbanti non li abbiamo inventati noi -aggiunge Oppezzo- a un certo punto ci hanno detto che siamo ignoranti e che bisognava fare così. La realtà è che c’è stato un processo di distruzione dei saperi”. Il concetto trova eco nelle parole di De Santis: “L’industria ha determinato un certo tipo di consumo e quindi di produzione: prima sugli scaffali riconoscevi le molteplicità, comparivano toponimi come il ‘Novara’; quella cultura corrispondeva a famiglie che avevano selezionato nel tempo determinate varietà, oggi trovi quasi solo indicazioni d’uso: ‘da risotto’, ‘da minestra’, ma non sai davvero che cosa sia. Il mercato tende a un’uniformità che parte da un impoverimento delle conoscenze”. 

Termine che si rispecchia anche nella disgregazione di terreni e paesaggio: una sorta di deserto di polvere, in stile Far West, senza più filari di pioppi e salici, con resti di aziende svuotate di vita, là dove quei saperi venivano coltivati, in tutti i sensi. Dalle parole di Oppezzo si coglie la frustrazione di qualcuno a cui è stato tolto qualcosa: “Alla fine siamo diventati degli esecutori, finisce che ti rassegni e pensi a salvare il tuo raccolto”.

Così l’agricoltore diventa ingranaggio di un mercato che spinge all’uniformità, determinando un modo di consumo poco consapevole e di produzione individuale, orientata a massimizzare il profitto e lo sfruttamento del suolo. “Si tende a guardare al sistema a partire dalla lavorazione ma è chi ha in mano il seme che controlla la filiera”, riprende De Santis.

Secondo un recente articolo della Rete Semi Rurali, in base ai requisiti europei di commercializzazione delle sementi, “il 70% della produzione è rappresentata da sole 20 varietà, e circa il 40% di quelle registrate sono coltivate con tecnologie resistenti agli erbicidi (Clearfield, Provisia e FullPage).” Philip Haxhari, direttore della ricerca genetica dell’Ente nazionale risi, ne spiega il funzionamento: “Nate dalla ricerca per risolvere il problema del crodo (il falso riso infestante, ndr), si tratta di varietà con geni resistenti a specifici diserbanti, che determinano la morte di qualsiasi altra pianta garantendo la purezza della ‘specie’”.

Con visione opposta, fanno della diversità il loro punto di forza la Rete Semi Rurali e altre comunità di pratiche, come il Biodistretto del riso piemontese e l’associazione Polyculturae, nata sulla scia dell’esperienza pionieristica della famiglia Stocchi di Una Garlanda. In un mercato di tecnologie registrate non è casuale che queste reti si basino sulla divulgazione gratuita di saperi ed esperienze, come nel caso della pacciamatura verde -tecnica di coltivazione su erbai misti la cui coltre protegge il riso senza bisogno di diserbanti- che gli Stocchi hanno condiviso liberamente.

Se queste realtà dimostrano che “un’altra agricoltura è possibile”, la transizione da convenzionale a organico non è esente da rischi né semplice. Mentre il convenzionale si affida a precisi manuali, il biologico deve essere a contatto con il campo e la pianta: “Gli Stocchi conoscono l’odore della fermentazione dell’acqua -racconta De Santis- questo non si può mettere in un manuale”. Semplificazione contro complessità, uniformità contro diversità e biodiversità. Non si tratta di fare bio perché vende più caro, ma di voler produrre, consumare e vivere in un paesaggio, anche mentale, diverso. 


 

L’EVOLUZIONE DEL MERCATO  E DELLA SEMINA DEL RISO IN ITALIA

L’11 dicembre 2023 l’Ente nazionale risi -ente pubblico economico sottoposto alla vigilanza del ministero dell’Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste- ha presentato al governo la relazione annuale “Riso – Evoluzione di mercato e sue prospettive” che traccia il bilancio della campagna risicola appena conclusa e analizza le prospettive di quella attuale. Nel 2023 la superficie investita a riso in Italia si è attestata a 210.239 ettari, il 3,7% in meno rispetto al 2022.

Il volume del raccolto è stimato a 1.383.700 tonnellate di risone, con un aumento di circa 114.500 tonnellate (+9%) rispetto alla campagna precedente, in conseguenza della maggior “resa agronomica”. L’Ente stima inoltre un volume di 35mila tonnellate di import da Paesi dell’Ue, in calo rispetto al dato della campagna precedente, mentre da Paesi terzi si stima un quantitativo di 175mila tonnellate. Il Pakistan è da sempre il principale fornitore di riso, seguito a distanza da Myanmar, India, Cambogia, Thailandia, Vietnam. Nell’ultimo decennio il grado di dipendenza dall’importazione da Paesi extra-Ue è passato dal 69% all’82%.

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