Diritti / Inchiesta
Così l’Italia ha svuotato il diritto alla trasparenza sulle frontiere
Il Consiglio di Stato ha ribadito la inaccessibilità “assoluta” degli atti che riguardano genericamente la “gestione delle frontiere e dell’immigrazione”. Intanto le forniture milionarie del governo a Libia, Tunisia ed Egitto continuano
L’Italia fa un gigantesco e preoccupante passo indietro in tema di trasparenza sulle frontiere e di controllo democratico dell’esercizio del potere esecutivo. Su parte delle nostre forniture milionarie alla Libia, anche di natura militare, per bloccare le persone rischia infatti di calare un velo nero. A fine 2023 il Consiglio di Stato ha pronunciato una sentenza che riconosce come non illegittima la “assoluta” inaccessibilità di quegli atti della Pubblica amministrazione che ricadono genericamente nel settore di interesse della “gestione delle frontiere e dell’immigrazione”, svuotando così di fatto l’istituto dell’accesso civico generalizzato che è a disposizione di tutti i cittadini (e non solo dei giornalisti). Non è un passaggio banale dal momento che la conoscenza dei documenti, dei dati e delle informazioni amministrative consente, o meglio, dovrebbe consentire la partecipazione alla vita di una comunità, la vicinanza tra governanti e governati, il consapevole processo di responsabilizzazione della classe politica e dirigente del Paese. Ma la teoria traballa. E ne siamo testimoni.
Breve riepilogo dei fatti. Il 21 ottobre 2021 l’Agenzia industrie difesa (Aid) -ente di diritto pubblico controllato dal ministero della Difesa- stipula un “Accordo di collaborazione” con la Direzione centrale dell’Immigrazione e della polizia delle frontiere in seno al ministero dell’Interno. Fu il Viminale -allora guidato dalla prefetta Luciana Lamorgese, che come capo di gabinetto ebbe l’attuale ministro, Matteo Piantedosi- a rivolgersi all’Agenzia, chiedendole “la disponibilità a fornire collaborazione per iniziative a favore dei Paesi non appartenenti all’Unione europea finalizzate al rafforzamento delle capacità nella gestione delle frontiere e dell’immigrazione e in materia di ricerca e soccorso in mare”. L’accordo dell’ottobre di tre anni fa riguardava una cooperazione “da attuarsi anche tramite la fornitura di mezzi e materiali” per dare impulso alla seconda fase del progetto “Support to integrated border and migration management in Libya”.
Il Sibmmil è legato finanziariamente al Fondo fiduciario per l’Africa, istituito dalla Commissione europea a fine 2015 al dichiarato scopo di “affrontare le cause profonde dell’instabilità, degli spostamenti forzati e della migrazione irregolare e per contribuire a una migliore gestione della migrazione”. La prima “fase” del progetto è dotata di un budget di 46,3 milioni di euro, la seconda, quella al centro dell’accordo tra Aid e ministero dell’Interno, di 15 milioni. A beneficiare di queste forniture (navi, formazione, equipaggiamenti, tecnologie), come abbiamo ricostruito in questi anni, sono state soprattutto le milizie costiere libiche, che si sono rese responsabili di gravissime violazioni dei diritti umani. Nel 2022, pochi mesi dopo la stipula dell’accordo, abbiamo inoltrato come Altreconomia un’istanza di accesso civico alla Aid -allora guidata dall’ex senatore Nicola Latorre, sostituito dal dicembre scorso dall’accademica Fiammetta Salmoni- per avere la copia del testo e degli allegati.
La richiesta fu negata richiamando a mo’ di “sostegno normativo” un decreto del ministero dell’Interno datato 16 marzo 2022 (ancora a guida Lamorgese). L’oggetto di quel provvedimento era l’aggiornamento della “Disciplina delle categorie di documenti sottratti al diritto di accesso ai documenti amministrativi”. Un’apparente formalità. Il Viminale, però, agì di sostanza, includendo tra i documenti ritenuti “inaccessibili per motivi attinenti alla sicurezza, alla difesa nazionale ed alle relazioni internazionali” anche quelli “relativi agli accordi intergovernativi di cooperazione e alle intese tecniche stipulati per la realizzazione di programmi militari di sviluppo, di approvvigionamento e/o supporto comune o di programmi per la collaborazione internazionale di polizia, nonché quelli relativi ad intese tecnico-operative per la cooperazione internazionale di polizia inclusa la gestione delle frontiere e dell’immigrazione”.
Il 16 gennaio 2023 Roma e Ankara hanno firmato un memorandum per “procedure operative standard” per il distacco in Italia di “esperti della polizia nazionale turca”
Non solo. In quel decreto si schermava poi un altro soggetto sensibile: Frontex. Vengono infatti classificati come inaccessibili anche i “documenti relativi alla cooperazione con l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera (appunto Frontex, ndr), per la sorveglianza delle frontiere esterne dell’Unione europea coincidenti con quelle italiane e che non siano già sottratti all’accesso dall’applicazione di classifiche di riservatezza Ue”. Così come le “relazioni, rapporti ed ogni altro documento relativo a problemi concernenti le zone di confine […] la cui conoscenza possa pregiudicare la sicurezza, la difesa nazionale o le relazioni internazionali”.
È per questo motivo che lo definimmo il “decreto che azzera la trasparenza sulle frontiere”, promuovendo di lì a poco un ricorso al Tar -grazie agli avvocati Giulia Crescini, Nicola Datena, Salvatore Fachile e Ginevra Maccarone dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione e membri del progetto Sciabaca&Oruka- contro i ministeri dell’Interno, della Difesa, della Pubblicazione amministrazione, oltreché l’Agenzia industrie difesa (Aid), proprio per vedere riconosciuto il diritto all’accesso civico generalizzato. In primo grado, però, il Tar del Lazio ci ha dato torto.
Ed eccoci arrivati al Consiglio di Stato, il cui pronunciamento, pubblicato a metà novembre 2023, ha ritenuto infondato il nostro appello, riconoscendo come “fonte di un divieto assoluto all’accesso civico generalizzato”, non sorretto perciò da alcuna motivazione, proprio quel decreto ministeriale firmato Luciana Lamorgese del marzo 2022. “All’ampliamento della platea dei soggetti che possono avvalersi dell’accesso civico generalizzato corrisponde un maggior rigore normativo nella previsione delle eccezioni poste a tutela dei contro-interessi pubblici e privati”, hanno scritto i giudici della quarta sezione.
I legali che ci hanno accompagnato in questo percorso non la pensano allo stesso modo. “Il Consiglio di Stato ha affermato che il decreto ministeriale del 16 marzo 2022, una fonte secondaria, non legislativa, adottata in attuazione della disciplina del diverso istituto dell’accesso documentale, abbia introdotto nell’ordinamento un limite assoluto all’accesso civico, che può essere invocato dalla Pubblica amministrazione senza che questa sia tenuta a fornire alcuna motivazione in merito alla sua ricorrenza.
Si tratta di un’evidente elusione del dettato normativo, che prevede in materia una riserva assoluta di legge”, osservano le avvocate Crescini e Maccarone. Che aggiungono: “I giudici hanno respinto anche la censura relativa all’assoluta genericità del limite introdotto con il decreto ministeriale, che non individua precisamente le categorie di atti sottratti all’accesso, ma al contrario solo il settore di interesse, cioè la gestione delle frontiere e dell’immigrazione, essendo idoneo a ricomprendere qualunque tipologia di atto, documento o dato, di fatto svuotando di contenuto l’istituto”. Questa sentenza del Consiglio di Stato rischia di rappresentare un precedente preoccupante. “L’accesso civico è uno strumento moderno che avrebbe potuto garantire la trasparenza degli atti della Pubblica amministrazione secondo canoni condivisibili che rispecchiano le esigenze che si sono cristallizzate in tutta Europa nel corso degli ultimi anni -riflettono le avvocate-. Tuttavia con questa interpretazione l’istituto viene totalmente svuotato di significato, costringendoci a fare un passo indietro di notevole importanza in tema di trasparenza, che è chiamata ad assicurare l’effettivo andamento democratico di un ordinamento giuridico”.
I mezzi guardacoste che l’Italia si appresta a cedere quest’anno alla Guardia nazionale del ministero dell’Interno tunisino sono sei
Le forniture italiane per ostacolare i transiti, intanto, continuano. Negli ultimi mesi la Direzione centrale dell’Immigrazione e della polizia delle frontiere del Viminale -retta da Claudio Galzerano, già a capo di Europol- ha ripreso con forza a bandire gare o pubblicare, a cose fatte, affidamenti diretti. Anche per trasferte o distacchi in Italia di “ufficiali” libici, tunisini, ivoriani o “esperti della polizia nazionale turca”. La delegazione della Libyan coast guard and port security, ad esempio, è stata portata dal 15 al 18 gennaio di quest’anno alla base navale della Guardia di Finanza a Capo Miseno (NA) per una “visita tecnica”. Nei mesi prima altre “autorità libiche” erano state formate alle basi di Gaeta (LT) o Capo Miseno. Gli ufficiali della Costa d’Avorio sono stati in missione dal 30 ottobre scorso al 20 gennaio 2024 “in materia di rimpatri”. Sono stati portati nei punti caldi di Lampedusa e Ventimiglia.
Al dicembre 2023 risale invece la firma dell’accordo tra la Direzione centrale e il Comando generale della Gdf per la fornitura di navi, assistenza, manutenzione, supporto tecnico-logistico a beneficio di Libia, Tunisia ed Egitto. Obiettivo: il “rafforzamento delle capacità nella gestione delle frontiere e dell’immigrazione e in materia di ricerca e soccorso in mare”. Proprio alla Guardia nazionale del ministero dell’Interno di Tunisi finiranno sei guardacoste litoranei della classe “G.L. 1.400”, con servizi annessi del tipo “consulenza, assistenza e tutoraggio”, per un valore di 4,8 milioni di euro (i soldi li mette il Viminale, i mezzi e la competenza la Guardia di Finanza). Navi ma anche carburante. A inizio gennaio di quest’anno il direttore Galzerano, dietro presunta richiesta di non ben precisate “autorità tunisine”, ha approvato la spesa di “nove milioni di euro circa” (testualmente) per “il pagamento del carburante delle unità navali impegnate nella lotta all’immigrazione clandestina e nelle operazioni di ricerca e di soccorso” nelle acque tunisine. Dove hanno recuperato le risorse? Da un fondo ministeriale dedicato a “misure volte alla prevenzione e al contrasto della criminalità e al potenziamento della sicurezza nelle strutture aeroportuali e nelle principali stazioni ferroviarie anche attraverso imprescindibili misure di cooperazione internazionale”. Chissà quale sarà la prossima fermata.
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