Ambiente / Opinioni
Il Vajont e quell’idea corrotta di potere ancora viva
A sessant’anni dalla tragedia, lo sfruttamento dei territori si nasconde ancora dietro la retorica dell’“interesse pubblico”. Siamo cambiati? La rubrica di Paolo Pileri
Sono passati sessant’anni dalla tragedia del Vajont del 9 ottobre 1963. “Resterà un monumento a vergogna perenne della scienza e della politica. Un connubio che legava strettissimamente […] quasi tutti gli accademici illustri al potere economico. Che a sua volta si serviva del potere politico, in questo caso tutto democristiano, per realizzare grandi imprese a scopo di pubblica utilità -si fa per dire- dalle quali ricavava enormi profitti. In compenso il potere politico era al sicuro sostenuto e foraggiato da coloro ai quali si prostituiva. La regola era -ed è ancora- come in tutti gli affari vantaggiosi, quella dello scambio”. Con queste parole, vent’anni dopo (1983), la giornalista Tina Merlin ha raccontato nel suo libro “Sulla pelle viva” (Cierre edizioni) il metodo predatorio in uso a politica e Stato che disattendevano al bene comune per occuparsi del proprio potere e del proprio profitto.
Nell’anniversario del Vajont i nostri rappresentanti istituzionali e politici avranno simili parole? O vireranno su discorsi di rattristata circostanza, attenti a non gettare ponti tra quei fatti e le logiche tuttora predatorie sulle risorse naturali? Ricorderanno che a innescare quel disastro fu lo sfruttamento senza ritegno della natura, oppure diranno ancora che fu quest’ultima a innescare un imprevedibile incidente? Perché non fu così, e Tina Merlin lo denunciò ben prima della sciagura, subendo denunce lei stessa.
Il ricordo del Vajont non può separarsi da quello della figura della giornalista. Vediamo se la citeranno e se indicheranno il 9 ottobre 1963 come una delle date d’inizio dell’antropocene italico e delle sue relazioni malate fatte di uomini senza scrupoli all’attacco di una natura inerme e delle sue genti fragili. Relazioni che tuttora chiamiamo “normalità”. Grimaldelli non molto diversi da quelli ancora usati per sveltire le opere della transizione ecologica e digitale, le autostrade 2.0, gli impianti eolici e solari, la logistica o le linee dell’Alta velocità. Ancora ci si para dietro l’interesse pubblico, si fa per dire.
Proprio a Longarone (il Comune più colpito dalla devastazione, in provincia di Belluno) si sta spalmando nuovo cemento per fare/allargare/tecnologizzare la superstrada diretta a Cortina, ovviamente in nome dell’interesse pubblico delle Olimpiadi del 2026. Torna attuale la domanda di Marco Paolini nella premessa all’edizione 1997 del libro di Tina Merlin: “Che cosa siamo diventati dopo” il Vajont? È obbligatorio chiederselo, soprattutto per i sindaci perché il Vajont è un fatto che riguarda tutti. E molti nostri piccoli e medi Comuni sono un po’ Longarone un po’ Erto e Casso (le altre due comunità colpite dalla tragedia) sopraffatti da un modo di governare il territorio ancora predatorio e logorante.
Sono 1.910 le persone che hanno perso la vita a seguito della tragedia del Vajont. L’onda, provocata dalla frana caduta dal monte Toc nel bacino della diga, raggiunse in pochi minuti il paese di Longarone, distruggendolo completamente
In fondo gli ettari strappati alle aree marginali per farci logistica o quelli a mais zeppi di agrofarmaci per farci biomassa o mangimi per l’insostenibile industria zootecnica o la turistificazione di massa senza alcun rispetto per suolo e acqua, non sono forse una nuova versione di colonizzazione che se ne infischia dei diritti della natura, della biodiversità, del clima fragile e delle popolazioni locali? Siamo davvero diversi da quel 1963? Non credo, ma possiamo svoltare, ricordando quel 9 ottobre senza ipocrisie. Il Vajont fu l’esito di un’idea corrotta di potere che ancora dobbiamo scrollarci di dosso. Altrimenti che serve tener viva la memoria, soprattutto verso i giovani, se un minuto dopo ricacciamo la testa nel puzzo di una normalità che è solo prosecuzione insopportabile di comportamenti predatori?
Paolo Pileri è ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “L’intelligenza del suolo” (Altreconomia, 2022)
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