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Ambiente / Approfondimento

L’eredità tossica nel Delta del Niger. Chi paga il “genocidio ambientale”?

L’inquinamento petrolifero nel Delta del Niger ha portato anche alla distruzione del 40% delle foreste di mangrovie nel Bayelsa e negli Stati circostanti

In Nigeria una commissione dello Stato del Bayelsa ha ricostruito il danno causato dalle estrazioni petrolifere delle società occidentali. Servono almeno 12 miliardi di dollari per bonifica e compensazione dei danni. Anche Eni è coinvolta

Tratto da Altreconomia 262 — Settembre 2023

Il Bayelsa è uno dei nove Stati che compongono la regione del Delta del Niger, in Nigeria, uno dei territori più inquinati del Pianeta. Lì sono attive da oltre sessant’anni le più importanti multinazionali petrolifere globali, con Eni a svolgere un ruolo di primissimo piano. Negli ultimi quattro anni la Commissione ambientale del Bayelsa ha condotto una serie di ricerche che hanno portato a risultati sconvolgenti quanto, purtroppo, prevedibili.

In base ai 2.500 elementi di prova raccolti, tra cui 500 interviste e l’analisi di 1.600 campioni di sangue prelevati alla popolazione locale, la Commissione ha potuto trarre la conclusione che i danni causati dall’attività dei giganti del petrolio -oltre a Eni sono in prima fila Shell (Regno Unito) e Total (Francia)- ammontano a 12 miliardi di dollari. Tanto bisognerebbe spendere per bonificare superfici di territorio altamente contaminate in una delle aree africane più ricche di “oro nero” e per questo sfruttate in maniera massiccia dalla metà del Novecento. Eni è molto presente in Bayelsa dal momento che gestisce uno dei tre terminal petroliferi della Nigeria, quello di Brass, sugli impatti dei quali esistono controversie da decenni.

Nel rapporto finale della Commissione, pubblicato a metà maggio 2023, si legge che “ogni anno si verificano 234 fuoriuscite di petrolio” in uno Stato che si estende su appena 3.500 chilometri quadrati (poco più grande della Valle d’Aosta). Tra il 2006 e il 2020 sono stati versati nei suoi fiumi, nelle paludi e nelle foreste almeno 110mila barili di petrolio, il 90% dei quali proveniva da impianti di proprietà di sole cinque compagnie petrolifere: le già citate Shell, Eni, Total e le statunitensi Chevron ed ExxonMobil.

Il rapporto afferma che in cinquant’anni di produzione di idrocarburi a Bayelsa potrebbe essere stata sversata una quantità di petrolio pari a 10-15 volte quella del gigantesco disastro della Exxon Valdez del 1989, quando una super-petroliera della ExxonMobil, a causa di un incidente, disperse nelle acque dell’Alaska ben 40,9 milioni di litri di petrolio.

Non è un caso, allora, che “la regione, che un tempo ospitava una delle più grandi foreste di mangrovie del Pianeta, ricca di diversità e valore ecologico, sia oggi uno dei luoghi più inquinati della Terra”, come si legge nel documento. Le foreste di mangrovie sono essenziali per limitare le inondazioni, che anche in quell’angolo di mondo stanno aumentando in maniera esponenziale a causa della crisi climatica provocata dall’uso dei combustibili fossili.

Si calcola che da quando è iniziata la produzione di petrolio il Bayelsa e gli Stati circostanti abbiano visto sparire il 40% delle foreste di mangrovie. Una perdita di habitat tristemente accompagnata da una significativa riduzione della biodiversità, con popolazioni di molte specie che nei siti di sversamento sono state quasi cancellate. Secondo le parole del presidente della Commissione, l’ex arcivescovo di York, Lord Sentamu, il Bayelsa è stato vittima di un genocidio ambientale. Difficile dargli torto, alla luce di quanto riscontrato dagli esperti.

Scontate sono quindi le conseguenze nefaste per la salute delle persone. Kathryn Nwajiaku-Dahou, a capo del gruppo di esperti che ha fornito un contributo fondamentale per la realizzazione dello studio, ha sottolineato che “per le persone che vivono nel Bayelsa l’aria che respirano, l’acqua che bevono, il pesce da cui dipendono e le terre che coltivano sono tutte intrise di petrolio”. L’aspettativa di vita media nel Bayelsa è di circa 50 anni, quattro in meno rispetto alla media nazionale della Nigeria, molto bassa rispetto ai circa 80 anni registrati nei Paesi occidentali.

La Commissione avverte che le cifre presentate, già di per sé drammatiche, sono quasi certamente sottostimate, dal momento che la maggior parte delle statistiche sulle perdite di petrolio nel Delta del Niger sono pubblicate dall’ente del governo federale della Nigeria, che a sua volta si avvale delle stesse multinazionali occidentali per trasportare i suoi ispettori nelle aree remote dove si verificano sversamenti di petrolio. Le cifre frutto di queste ispezioni “guidate” sono fino a tre volte inferiori rispetto al numero di barili persi registrato da altri enti del governo nigeriano responsabili del monitoraggio della produzione. “Vivo a meno di cinquecento metri da un impianto petrolifero multimiliardario che emette nell’aria gas tossici ogni giorno -ha raccontato ai ricercatori Bubaraye Dakolo, sovrano tradizionale del regno di Ekpetiama e presidente del Bayelsa State council of chiefs-. L’enorme sofferenza causata dall’inquinamento dal petrolio nel mio regno mi colpisce, mi soffoca e mi guarda in faccia ogni giorno”.

Il report è stato reso pubblico proprio mentre compagnie come Shell stanno di fatto “abbandonando” il Delta del Niger, spostando le loro operazioni su pozzi offshore in acque profonde, nel tentativo di “limitare” gli impatti delle loro attività sulle popolazioni locali. Shell è oggetto di diverse cause legali in numerosi Paesi per l’impatto delle sue operazioni in Nigeria. Per gli ambientalisti del Bayelsa la compagnia britannica avrebbe dovuto intraprendere le dovute bonifiche prima di cedere le sue attività. Temono, infatti, che le società presenti nel Delta si lasceranno alle loro spalle solo caos e distruzione come ha denunciato anche la scrittrice Noo Saro-Wiwa, figlia del poeta e attivista Ken ucciso nel 1995.

Per questo la commissione spinge affinché “Shell, Eni e gli altri colossi petroliferi creino un fondo di 12 miliardi di dollari per danni arrecati agli ecosistemi e alle comunità di Bayelsa negli ultimi 50 anni”. Nel 2022, Shell ha realizzato profitti record che ammontano a circa 40 miliardi di dollari. Stesso discorso per Eni il cui utile operativo per il 2022 si è attestato a 20,4 miliardi di euro. Una tendenza globale, a dimostrazione di quanto queste società siano ancora fin troppo potenti, e non solo sul piano finanziario.

Shell non ha commentato i risultati del rapporto, mentre la società italiana amministrata da Claudio Descalzi attribuisce le perdite di greggio a furti commessi da soggetti terzi e assicura di aver intrapreso tutte le attività necessarie per limitare i danni. A Milano Finanza Eni ha rincarato la dose sostenendo che il rapporto contenga numeri e ricostruzioni senza valore da parte di organizzazioni non ufficiali. Posizione quanto meno singolare, visto che la Commissione è un organo ufficiale dello Stato di Bayelsa.

Lo spazio “Fossil free” è curato dalla Ong ReCommon recommon.org. Un appuntamento ulteriore -oltre alle news su altreconomia.it- per approfondire i temi della mancata transizione ecologica e degli interessi in gioco

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