Diritti / Opinioni
Aleppo: perché rinunciamo a quella fotografia
È giusto denunciare gli orrori della guerra ma la deontologia professionale prevede innanzitutto rispetto per la dignità delle vittime
Di recente, il filosofo Slavoj Žižek ha citato un esempio illuminante della retorica sulla guerra: “Nella trasmissione 60 Minutes della CBS -12 maggio 1996-, a questa domanda sulla guerra in Iraq: ‘Sappiamo che sono morti mezzo milione di bambini, più di quanti sono morti a Hiroshima, un prezzo altissimo da pagare. Come si giustifica?’, Madeleine Albright -che a breve sarebbe divenuta Segretario di Stato USA, ndr- aveva risposto con tutta calma: ‘Io so benissimo che si è trattato di una scelta difficilissima, ma noi siamo convinti che sia stata una scelta perfettamente legittima’”.
La guerra va raccontata, non ci sfugge. Siamo stanchi di vittime innocenti, bambini feriti o morti, case distrutte, famiglie in fuga. Siamo stanchi anche delle ipocrisie.
Un filmato o una fotografia, com’è oggi, sulle prime pagine di tutti i giornali italiani, per le bombe su Aleppo, in Siria, possono anche scatenare reazioni positive.
Ma è corretto utilizzare a fini giornalistici la sofferenza? La domanda impone una riflessione seria, profonda, duratura. Quindi non istintiva, frettolosa, come invece ormai siamo abituati.
Sul tema questa riflessione c’è stata: è stata lunga e dibattuta, aperta a revisioni e aggiornamenti. È culminata nel 1990 e si è protratta per un ventennio. Il risultato si chiama “Carta di Treviso” (un protocollo firmato il 5 ottobre 1990 da Ordine dei giornalisti, Federazione nazionale della stampa italiana e Telefono azzurro “con l’intento di disciplinare i rapporti tra informazione e infanzia”). Il dibattito intorno alla Carta fa perno sull’articolo 31 della Costituzione italiana, che “protegge l’infanzia”.
Per quanta autostima possiamo avere, confrontarci con riflessioni durature è doveroso e probabilmente anche utile. E la Carta di Treviso dice chiaramente che la spettacolarizzazione della sofferenza è contraria alla deontologia della professione giornalistica. La Carta di Treviso è esplicita: “Nel caso di minori malati, feriti, svantaggiati o in difficoltà occorre porre particolare attenzione e sensibilità nella diffusione delle immagini e delle vicende al fine di evitare che, in nome di un sentimento pietoso, si arrivi ad un sensazionalismo che finisce per divenire sfruttamento della persona”.
È il motivo per cui, senza alcuna presunzione, non ci uniremo al coro di editoriali scatenati da un’immagine, preferendo raccontare la durezza dei conflitti -com’è il caso siriano, yemenita, libico, congolese…- guardando ai mercati, agli interesse, ai commerci, e alle nostre responsabilità.
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