Diritti / Attualità
Il nuovo decreto contro il soccorso in mare è inapplicabile e tradisce la Costituzione
Per l’Asgi le “Disposizioni urgenti per la gestione dei flussi migratori” varate dal Governo Meloni ed entrate in vigore il 3 gennaio al dichiarato scopo di avversare le Ong sono in larga misura inapplicabili per il loro palese contrasto con il diritto internazionale ed europeo, nonché con la Carta. Ecco perché
Le “Disposizioni urgenti per la gestione dei flussi migratori” varate con il decreto legge 1/2023 dal Governo Meloni ed entrate in vigore il 3 gennaio hanno scatenato “tanto rumore per nulla”. Quelle norme, infatti, o sono in parte già applicate o sono semplicemente inapplicabili per il loro palese contrasto con il diritto internazionale ed europeo. È per questo che l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione l’ha definita l'”insostenibile fragilità” del cosiddetto decreto “anti-Ong”, evidenziandone i fallimenti in un agile commento pubblicato il 5 gennaio.
Prima di smontare punto per punto il provvedimento, i giuristi dell’Asgi hanno fatto un passo indietro all’insediamento del nuovo esecutivo, risalente al 22 ottobre 2022. Fin da subito, infatti, il governo si è distinto “per i tentativi di bloccare quella che definisce ‘immigrazione illegale’, soprattutto proveniente via mare dal Nord Africa”. Come? “Emanando il 24 ottobre 2022 una direttiva del ministro dell’Interno (prot. 0070326), con cui ha rifiutato l’indicazione di un porto di approdo a due navi (Ocean Viking e Humanity 1) che avevano prestato soccorso a persone straniere naufraghe nel Mediterraneo, chiedendo agli Stati di bandiera (Norvegia e Germania) di assumersi la responsabilità di indicare loro il porto sicuro, nonché emanando il 4 novembre 2022 un decreto con cui ha vietato alle navi Geo Barents e Humanity 1, di sostare in acque italiane oltre il tempo necessario per far sbarcare le sole persone in precarie condizioni di salute”.
Quei tentativi, ricorda l’Asgi, sono ben presto falliti (sul punto rimandiamo al nostro evento online “Sbarco contro i diritti”), “tant’è che dopo l’imbarazzante autorizzazione selettiva allo sbarco per le sole persone qualificate ‘vulnerabili’, alla fine tutte le navi umanitarie sono state fatte entrare in porti italiani e tutte le persone fatte sbarcare, per effetto degli obblighi internazionali che impongono di prestare soccorso a chiunque si trovi in condizioni di pericolo in mare e di condurre le persone soccorse in un luogo sicuro di sbarco”.
È in questa cornice di questo incapace cattivismo amministrativo che si inserisce il nuovo decreto legge 1/2023, licenziato dal Consiglio dei ministri letteralmente per “contemperare l’esigenza di assicurare l’incolumità delle persone recuperate in mare […] con quella di tutelare l’ordine e la sicurezza pubblica”. Proprio così: “recuperate” e non invece salvate dall’annegamento. Sta di fatto, ricorda l’Asgi, che il nuovo decreto, composto da tre articoli, deve essere interpretato “in conformità alle norme costituzionali (tra le quali l’art. 10), alle norme europee e alla normativa internazionale, peraltro espressamente richiamate sia nel decreto-legge 130/2020 sia nel decreto legge 1/2023 di riforma del primo”. È un monito a una parte della stampa italiana, che troppe volte si appassiona a etichette-pagliuzza (il presunto “Codice di condotta delle Ong”) piuttosto che osservare e denunciare le illegittimità-trave.
“Il nuovo decreto -osserva l’Asgi- appare in sostanziale continuità con una disposizione contenuta nel decreto legge 130/2020 (cosiddetto “Decreto Lamorgese”) che consente all’esecutivo di ‘limitare o vietare il transito e la sosta di navi nel mare territoriale’ per motivi di ordine e sicurezza pubblica in conformità alla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 (Convenzione di Montego Bay)”.
Quel divieto di transito e sosta, però, è escluso dal nuovo decreto 1/2023 nel caso di operazioni di soccorso immediatamente comunicate al Centro di coordinamento per il soccorso marittimo dello Stato nella cui area di ricerca e soccorso (Sar) di competenza ha avuto luogo l’evento e allo Stato di bandiera della nave, e qualora ricorrano le seguenti condizioni, riportate testualmente dal provvedimento:
“a) la nave che effettua in via sistematica attività di ricerca e soccorso in mare opera in conformità ad autorizzazioni o abilitazioni rilasciate dalle competenti autorità dello Stato di bandiera ed è in possesso dei requisiti di idoneità tecnico-nautica alla sicurezza della navigazione;
b) sono state avviate tempestivamente iniziative volte a informare le persone prese a bordo della possibilità di richiedere la protezione internazionale e, in caso di interesse, a raccogliere i dati rilevanti da mettere a disposizione delle autorità;
c) è stata richiesta, nell’immediatezza dell’evento, l’assegnazione del porto di sbarco;
d) il porto di sbarco assegnato dalle competenti autorità è raggiunto senza ritardo per il completamento dell’intervento di soccorso;
e) sono fornite alle autorità per la ricerca e il soccorso in mare italiane, ovvero, nel caso di assegnazione del porto di sbarco, alle autorità di pubblica sicurezza, le informazioni richieste ai fini dell’acquisizione di elementi relativi alla ricostruzione dettagliata dell’operazione di soccorso posta in essere;
f) le modalità di ricerca e soccorso in mare da parte della nave non hanno concorso a creare situazioni di pericolo a bordo nè impedito di raggiungere tempestivamente il porto di sbarco”.
“Tali condizioni -spiega ancora l’Asgi- erano già previste per gran parte prima dell’entrata in vigore del nuovo decreto legge e sempre attuate dalle navi umanitarie, le quali contattano già immediatamente i Centri marittimi competenti per l’area marittima ove accade l’evento per avere indicazione di un porto sicuro ove far sbarcare le persone soccorse (lett. c), salvo che tale indicazione provenga dalla Libia, essendo chiaramente un luogo non sicuro (come riconosciuto da Onu, Unhcr e Oim, tra gli altri)”.
Il problema nella prassi è il contrario, osservano i giuristi: “Sono proprio detti Centri che non rispondono tempestivamente alle richieste di avere un porto sicuro o si rimpallano l’un l’altro le competenze, lasciando le navi per molti giorni in mare in attesa del porto con le persone soccorse a bordo”.
Questa circostanza è confermata da ultimo anche dai dati trasmessi dal Comando generale delle capitanerie di porto ad Altreconomia e relativi al periodo gennaio-primi di novembre 2022. Su 506 eventi “coordinati” dal Centro di soccorso marittimo della Guardia costiera italiana, quelli riferiti a “naviglio mercantile riconducibile a Ong” erano inchiodati allo 0,4%. Non perché le Ong rifiutino il coordinamento, semplicemente perché da Roma, da anni, la prassi è far di tutto per non rispondere, negando anche l’evidenza.
Altrettanto pleonastica è la lettera e): come noto, infatti, le navi delle Ong forniscono sempre informative precise delle operazioni di soccorso, come ricorda l’Asgi, è nel loro interesse.
Quanto alle autorizzazioni alla navigazione rilasciate dagli Stati di bandiera (lett. a), “tutte le navi umanitarie rispettano tutti i requisiti e possiedono le certificazioni statutarie previste per la classe assegnata dallo Stato di bandiera”, continuano i giuristi. Che citano puntualmente la recentissima sentenza della Corte di giustizia dell’agosto scorso (cause riunite C-14/21 e C-15/21) che ha “chiarito che lo Stato di approdo (era proprio l’Italia lo Stato parte in quelle cause) non può pretendere certificazioni diverse da quelle rilasciate dallo Stato di bandiera, né può esigere che le navi rispettino prescrizioni tecniche ulteriori e diverse da quelle previste dalle Convenzioni internazionali pertinenti”. Tradotto: quella decisione della Corte di giustizia aveva escluso la “legittimità di eventuale fermo amministrativo delle navi di soccorso per ritenuta violazione di detta condizione, come astrattamente previsto dall’art. 2-quater e ss. D.L. n. 130/2022, come modificato dal D.L. n. 1/2023”.
Tolte le ovvietà rimane il cuore del decreto, ovvero le condizioni stabilite alle lettere b), d) e f). L’Asgi li chiama i “veri obiettivi”: cioè “impedire l’approdo in Italia delle persone salvate dai naufragi”, “impedire che l’Italia divenga Stato competente all’esame delle domande di protezione internazionale nel momento in cui siano presentate dalle persone soccorse”, “impedire che le navi umanitarie soccorrano persone in differenti eventi di pericolo”.
“Pretendere che il porto di sbarco assegnato sia raggiunto ‘senza ritardo’ (lett. d) e che le modalità di soccorso non impediscano di raggiungerlo ‘tempestivamente’ (lett. f) sottende la volontà di costringere le navi a non soccorrere persone a rischio di naufragio diverse da quelle già soccorse e delle quali abbiano contezza nell’area di mare ove si trovano ad operare, così come di impedire che le persone soccorse siano trasbordate da una nave umanitaria all’altra (per consentire a una di esse di tornare a cercare persone in pericolo)”.
Peccato che questo non potrà mai verificarsi poiché -come ricorda l’Asgi- “qualora il comandante della nave che già ha prestato un primo soccorso venga a conoscenza di una ulteriore situazione di pericolo dovrà sempre dirigersi verso la zona e prestare assistenza in ossequio all’obbligo inderogabile di soccorso previsto dal diritto internazionale consuetudinario e pattizio (art. 98 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, Cap. V Regola 33 della Convenzione Solas) e dal diritto interno (v. art. 1113, art. 1158 Codice della navigazione)”. È come se il decreto si squagliasse di fronte all’obbligo di soccorso imposto dal diritto internazionale, norma di rango superiore (art. 10 e 117 Cost.) e che “non può essere derogata da una disciplina interna volta a limitare i soccorsi stessi”.
È inapplicabile anche la previsione che, senza esplicitarlo, vuole collegare l’ordine di raggiungere tempestivamente il porto sicuro assegnato a un divieto generalizzato di trasbordo delle persone da una nave all’altra. “La valutazione delle condizioni di sicurezza della nave che eventualmente impongano il trasbordo sono da valutarsi caso per caso -evidenziano ancora i giuristi dell’Asgi- e restano nella competenza del/della comandante della nave. Inoltre se il motivo del trasbordo fosse di recarsi subito a soccorrere altre persone in condizione di pericolo, varrebbe il medesimo precetto inderogabile di cui all’art. 98 della Convenzione di Montego Bay”.
Lo Stato deve quindi esigere dal comandante di una nave che questo agisca per prestare soccorso. E, come ricorda l’Asgi, “non ci può essere alcun margine di scelta da parte del/della comandante di qualsiasi nave a effettuare anche diversi soccorsi qualora nel corso della propria navigazione intercetti più situazioni di pericolo e altre navi che portino le persone soccorse in un porto sicuro non siano in grado di intervenire, né le autorità italiane possono ordinare al comandante della nave in pericolo di non effettuare tale soccorso, salvo incorrere nella commissione di gravi reati”. Nessuno può essere infatti sbarcato o consegnato ad “autorità” di un Paese dove rischi di essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti, come avviene invece sistematicamente in Libia, il “grande inganno” del nostro tempo.
C’è poi la partita della richiesta di protezione internazionale a bordo della nave. Anche su questo l’Asgi fa chiarezza. “Quanto alla previsione secondo cui debbano essere ‘avviate tempestivamente iniziative volte a informare le persone prese a bordo della possibilità di richiedere la protezione internazionale e, in caso di interesse, a raccogliere i dati rilevanti da mettere a disposizione delle autorità’ (lett. b), va evidenziato che una simile prescrizione non può essere data ai comandanti di una nave battente bandiera di un altro Stato poiché i relativi poteri e doveri sono indicati dalla legge nazionale di quello Stato (art. 8 Codice della navigazione R.D. 327/42) e pertanto lo Stato italiano non può imporre competenze non previste dall’ordinamento dello Stato di bandiera. Peraltro, va precisato che con riferimento alle navi battenti bandiera italiana il/la comandante esercita funzioni di pubblico ufficiale solo con riguardo ad atti di stato civile (nascita, morte, matrimonio) e per la ricezione di testamenti sulla nave (art. 296 Codice navigazione). In termini analoghi dispone l’art. 94, par. 2 lett. b) Convenzione Unclos. La Direttiva 2013/32 (art. 4) prevede che ogni Stato nomini specifiche autorità competenti all’esame delle domande di protezione internazionale, alla trattazione dei casi soggetti al Regolamento Dublino o per rifiutare l’ingresso nell’ambito delle procedure d’esame in frontiera. Con il d.lgs 25/2008 (modificato anche in attuazione di detta Direttiva) l’Italia ha nominato quale autorità competente all’esame, anche per le domande in frontiera, le Commissioni territoriali (distribuite su base regionale), l’Unità Dublino (presso il Ministero dell’interno) per l’accertamento della competenza dello Stato secondo i criteri del Regolamento 604/2013 (art. 3) e la polizia di frontiera o la questura territorialmente competente per la ricezione delle domande (art. 26)”. Sono tutte competenze assegnate “inevitabilmente” quando la persona richiedente asilo si trova sul territorio italiano e non su quello di altro Stato, come nel caso di navi battenti bandiera straniera.
Per l’Asgi, quindi, se con questa previsione il governo italiano “volesse sostenere, come ha dichiarato più volte, che la competenza all’esame della domanda di asilo dei naufraghi si radica sulla base della bandiera della nave di salvataggio” sarebbe allora “evidente la sua contrarietà al diritto dell’Unione europea, non potendo disciplinare con propria norma interna una materia di esclusiva competenza dell’Ue”.
Con quel piccolo, si fa per dire, particolare per cui l’obbligo di soccorso delle persone in mare in condizioni di pericolo “prescinde oggettivamente dalla qualificazione giuridica soggettiva di ognuna di loro” (Par. 2.1.10 Allegato Convenzione SAR ratificata e resa esecutiva con legge 147/1989) e solo quando sono “poste in completa sicurezza potranno essere qualificate giuridicamente, ciò che avviene una volta che siano sbarcate, in quanto le operazioni di soccorso si completano solo con l’approdo in un porto sicuro”. Non esiste il “migrante” o il “rifugiato” nel mare, c’è il naufrago da salvare da morte certa. Ecco perché anche il tentativo di “passare” la competenza all’esame di domande di protezione internazionale allo Stato di pertinenza della nave di soccorso è condannato al fallimento.
Un’ultima questione analizzata dall’Asgi, rimasta “sotto traccia” nel decreto per falsa coscienza e ipocrisia, riguarda se le autorità italiane possano “indicare lo sbarco in un porto sicuro italiano che si trovi in zona molto lontana dall’area in cui è avvenuto il soccorso”. È scandalosamente accaduto in questi giorni verso Taranto, Livorno, Ravenna, come se un’ambulanza intervenuta sul Grande raccordo anulare dopo un maxi incidente venisse spedita con i feriti gravi al Niguarda di Milano (e guai alle ambulanze che fan soccorsi multipli).
“La Convenzione Solas (Cap. V, Regola 33, par. 1-1) impone agli Stati di cooperare affinché i comandanti delle navi che hanno prestato soccorso imbarcando persone in pericolo in mare siano liberati dal loro impegno con la minima deviazione possibile dalla rotta originariamente prevista -ricorda l’Asgi-. La Risoluzione MSC 167(78) del 20 maggio 2004 (Guidelines on the treatment of persons rescued at sea), in applicazione degli obblighi previsti dalla Convenzione SOLAS e dalla Convenzione SAR, stabilisce che porto sicuro è quello del luogo in cui sono completate le operazioni di salvataggio e in cui le persone salvate possono accedere ai loro bisogni fondamentali (par. 6.12), precisando che la nave non può di per sé essere considerata luogo sicuro anche se in grado di garantire sicurezza immediata alle persone (par. 6.13). La stessa Risoluzione precisa inoltre che ‘Una nave non dovrebbe essere soggetta a ritardi ingiustificati, oneri finanziari o altre difficoltà dopo aver prestato assistenza alle persone in mare; pertanto gli Stati costieri dovrebbero sollevare la nave non appena possibile’ (par. 6.3)”.
Un porto sicuro è dunque quello che non “aggrava la condizione psico-fisica delle persone soccorse (che provengono già da contesti di assoggettamento a violenze di vario genere) protraendo nel tempo la loro completa messa in sicurezza, né che impedisca loro di presentare tempestivamente, se del caso, domanda di protezione internazionale alle competenti autorità nazionali e, non da ultimo, che non impedisca alle navi di soccorso di svolgere la loro legittima attività umanitaria senza ulteriori aggravi”. Anche l’indicazione di porti sicuri italiani che si trovano in zone lontane giorni di navigazione rispetto al luogo ove è avvenuto il soccorso è perciò da ritenere per l’Asgi “in contrasto con l’obbligo inderogabile di prestare soccorso a persone in mare in condizioni di pericolo”.
Alla luce di queste considerazioni l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione stigmatizza il ricorso a un “intervento legislativo che, non si può non evidenziare, ancora una volta nasconde la mancanza di consapevolezza della fallimentare strategia italiana ed europea che persevera a negare la possibilità di ingressi regolari che consentano alle persone straniere di entrare in modo veloce e sicuro sul territorio italiano o di altro Stato dell’Unione europea con visti di ingresso per lavoro o per ricerca lavoro o per asilo o per altra motivazione prevista dalla complessa disciplina dell’immigrazione”. Un provvedimento che nemmeno si fa carico di “promuovere con l’Unione europea un’ampia operazione di evacuazione urgente dalla Libia delle migliaia di persone straniere imprigionate in luoghi di detenzione in condizioni disumane e degradanti, ma nemmeno di cessare la collaborazione che dal 2007 i governi italiani portano avanti di fatto con le varie milizie armate libiche coinvolte anche in operazioni di traffico di persone”.
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