Diritti / Opinioni
Sbarchi, naufraghi e Stati di bandiera: così il diritto ha smentito la rotta governativa
Nei giorni della crisi umanitaria al porto di Catania sono stati fatti riferimenti impropri da parte dell’esecutivo e di alcuni media al “controllo delle frontiere”, al “rispetto del diritto” e a presunte “responsabilità degli Stati di bandiera”. Francesca De Vittor, ricercatrice in Diritto internazionale all’Università Cattolica, fa chiarezza
Pubblichiamo la trascrizione dell’intervento orale di Francesca De Vittor, ricercatrice in Diritto internazionale all’Università Cattolica di Milano, nel corso dell’evento online “Sbarco contro i diritti” del 7 novembre 2022. Informazioni utilissime per capire che cosa è successo nel Mediterraneo e al porto di Catania.
In questi giorni un elemento costante della cattiva informazione è stato il riferimento da parte delle autorità italiane al controllo delle frontiere e al fatto che quello che le autorità italiane chiedono è solo il rispetto del diritto. Chiaramente ben si guardano dall’indicare di quale diritto, perché poi il fondamento normativo è un po’ difficile da trovare nelle loro pretese.
La prima cosa da chiedersi è se è effettivamente possibile distinguere tra chi viene sbarcato e chi no. È ovvio che non sia possibile, perché è la stessa Convenzione sulla ricerca e il soccorso in mare che vieta qualsiasi distinzione di questo tipo. La Convenzione, che normalmente è nota come Convenzione Sar (Search and rescue) o Convenzione di Amburgo, impone l’obbligo di soccorso a tutti gli Stati coinvolti e poi, di conseguenza, anche al comandante della nave che ha effettuato il soccorso. La Convenzione definisce il termine “soccorso” come quell’operazione volta a trarre fuori dal mare le persone in pericolo, e quindi portarle a bordo della nave, provvedere alle loro immediate necessità e sbarcarle in un porto sicuro. Quindi è la stessa Convenzione che alle sue prime norme ci dice che l’operazione di soccorso si conclude solo quando tutte le persone sono sbarcate. La stessa, poi, si preoccupa di precisare che nessuna distinzione è possibile tra un tipo o un altro tipo di naufraghi quando impone a tutte le parti di assicurare che sia prestata assistenza a chiunque si trovi in condizioni di pericolo in mare indipendentemente dalla nazionalità, dallo status o dalle circostanze in cui queste persone siano trovate. Dunque è la stessa Convenzione che non permette di distinguere tra naufraghi di un certo tipo e naufraghi di un altro.
A bordo sono tutti naufraghi e tutti i naufraghi devono essere sbarcati. Quindi il comandante della nave che ha dei naufraghi a bordo, ovviamente una volta che è entrato in un porto sicuro, non può allontanarsi da quel porto fino ad aver concluso le sue operazioni con lo sbarco di tutti i naufraghi. Correttamente questa è l’unica cosa che può avvenire. Questa costante distinzione tra naufraghi meritevoli di soccorso, o meglio tra naufraghi vulnerabili, e naufraghi che non lo sono, non ha ragione di esistere perché qualsiasi naufrago è vulnerabile per definizione. Solo dopo lo sbarco, lo Stato opererà le proprie distinzioni o svolgerà i propri controlli di frontiera. Nessuno vieta all’Italia di controllare i propri confini come viene costantemente invocato dal governo: quei controlli dei confini avverranno attraverso l’identificazione e la determinazione dello status delle persone sbarcate, in seguito alla quale si valuterà “se possono restare in Italia” o se in qualche modo saranno oggetto di una procedura di espulsione, di ritorno, o quello che sarà. Ma questo potrà essere fatto solo dalle autorità competenti dopo lo sbarco.
Chiedere lo svolgimento di qualsiasi forma di predeterminazione dello status o delle fragilità al comandante della nave è del tutto illegittimo, perché il comandante della nave non ha competenza a determinare l’identità e lo status delle persone soccorse. Tanto è vero che tutto il piano operativo di svolgimento e coordinamento delle operazioni di ricerca e soccorso prevede non a caso che il comandante della nave chieda qual è il porto di sbarco verso il quale dirigersi, perché nel momento in cui lo Stato indica un porto di sbarco, si organizza anche per essere presente con le proprie autorità al momento dello sbarco e quindi valutare le esigenze o i bisogni dei naufraghi. Quindi, da questo punto di vista, qualsiasi distinzione è del tutto del tutto illegittima.
L’altro punto importante riguarda la responsabilità dello Stato di bandiera. Innanzitutto occorre ricordare che le Convenzioni che attribuiscono oneri agli Stati costieri -e l’Italia è il più grande Stato che entra al centro del Mediterraneo- tengono anche conto del fatto che essere uno Stato costiero, nella gran parte dei casi, è soprattutto un vantaggio. Pensiamo a quanto interesse hanno tutti gli Stati ad avere uno sbocco al mare. Per cui fa parte dell’essere Stato costiero, sia avere alcuni dei porti commerciali più importanti del Mediterraneo, sia essere proprio il porto di sbarco in caso di naufragi che avvengano nel Mediterraneo. Se un naufragio avvenisse al largo delle coste norvegesi e a operare il salvataggio fosse una Ong italiana, diremmo che il porto di sbarco deve essere un porto norvegese, perché è il porto più adeguato.
Anche gli Stati di bandiera cooperano, come tutti gli Stati membri della Convenzione Sar, alle operazioni di soccorso. Infatti normalmente il comandante della nave informa della situazione di “distress” e del suo intervento sia il centro di coordinamento marittimo (Mrcc) dello Stato che ritiene essere il più idoneo a coordinare, sia il Mrcc del proprio Stato di bandiera che eventualmente coopererà. Ma nessuna norma individua lo Stato di bandiera in quanto tale come luogo di sbarco. Sappiamo che questi eventi non sono iniziati in zona Sar italiana, ma in caso di non cooperazione, sia pur illecita, degli altri Stati, poco importa: chiaramente il porto di sbarco sicuro dovrà essere quello più idoneo all’efficacia dei soccorsi, cioè alla conclusione dei soccorsi nel minor tempo possibile e geograficamente questo luogo non può che essere l’Italia. Anche il fatto di ricorrere alla vecchia tesi del “territoire flottant” -e cioè che la nave sarebbe “territorio galleggiante” dello Stato e quindi nel momento in cui le persone sono a bordo della nave sono nel territorio dello Stato, come se il capitano dovesse essere l’autorità di polizia del suo Paese e rispetto al quale fare le domande d’asilo- non ha nessuna giustificazione. Lo Stato di bandiera della nave esercita, si dice, la giurisdizione esclusiva sugli atti che si svolgono solo a bordo della nave ma questo non significa che salire a bordo di una nave equivalga a varcare i confini di quello Stato e accedere al suo territorio come se fosse terraferma.
Francesca De Vittor è ricercatrice in Diritto internazionale all’Università Cattolica di Milano
© riproduzione riservata