Diritti / Reportage
Un racconto da Lampedusa, tra le memorie dei vivi e il mare che riconsegna altri corpi
La sera di lunedì 24 ottobre un piccolo gruppo silenzioso arrivato alla spicciolata prima del buio si è riunito al Cimitero vecchio dell’isola in forma privata per ricordare due bambini provenienti dalla Costa d’Avorio. Si prega in tre lingue, con la promessa ai genitori di non dimenticare e di non lasciarli soli. Il racconto di Alessandra Governa
Dietro al vetro sbeccato e tenuto fermo da nastro adesivo argentato della camera mortuaria del Cimitero vecchio di Lampedusa sono custodite le salme di due bambini, morti entrambi bruciati nel rogo dell’imbarcazione sulla quale viaggiavano con altre circa quaranta persone, il 21 ottobre scorso. Proprio lì, nel vialetto antistante, tra le tombe, la sera di lunedì 24 un piccolo gruppo silenzioso arrivato alla spicciolata prima del buio si è riunito in forma privata per ricordare i due bambini, provenienti dalla Costa d’Avorio. Di loro sappiamo, e non è poi così frequente, il nome, il cognome, la data di nascita. I genitori non sono presenti alla commemorazione. A loro vanno la preghiera religiosa e laica in tre lingue, la promessa di non dimenticare e quella di non lasciarli soli.
Questo, ora si può fare. Ricordare, intessere le memorie dei vivi mentre il mare riconsegna altri corpi, vittime di naufragi differenti o mentre i superstiti raccontano di persone perse durante la traversata. C’è rabbia ma non rassegnazione tra chi è a conoscenza delle tragedie. L’isola con i turisti, ancora molti, i bar e ristoranti aperti e i karaoke, probabilmente non si è accorta che -da lunedì 24 sera-, sono arrivate oltre 500 persone in attracchi multipli, a volte autonomi a volte con persone intercettate e soccorse dalla Guardia costiera. Cinquecento persone che si aggiungono alle oltre 700 già presenti nell’hotspot (con una capienza di circa 350 posti) e a cui si sommano altre quaranta persone nella mattinata di martedì. E due salme. Altri due bambini, probabilmente gemelli e probabilmente morti di ipotermia durante il viaggio a poche settimane dalla loro nascita. I minori, accompagnati e non, sono tantissimi in Contrada Imbriacola.
Le rotte si alternano e non sono più una novità: dalla Libia con barche di legno, potenzialmente più adatte al lungo tragitto e dalla Tunisia, da Sfax, con gommoni o barche di lamiera assemblate in qualche modo. Non c’è più notizia in questo tentativo di raggiungere l’Europa. Non c’è più notizia nei numeri, nelle connivenze, nelle condizioni spesso degradanti in cui le persone sopravvissute sono “accolte” nell’hotspot, nei trasferimenti verso “il continente” tardivi e via mare. La notizia sarebbe trovare una soluzione, prendersi la cura, il tempo, la responsabilità di trovare una soluzione.
Dal Molo Favaloro, in questo momento vuoto, le persone che sbarcano ci mostrano chiaramente che le soluzioni non vanno cercate nei blocchi navali, nel rinnovo del Memorandum con la Libia e nel contestuale “regalo” di ulteriori navi o mezzi per il pattugliamento del Mediterraneo. Le persone che sbarcano ci indicano senza possibilità di interpretazione, con i loro corpi e le loro perdite, che le soluzioni non possono essere nemmeno trovate nel credere che dall’altra parte del Mediterraneo (o al di là dei confini orientali europei in altri casi) vi siano condizioni di sicurezza e di protezione tali per cui le persone possano essere là respinte o semplicemente trattenute. È quanto di più anacronistico e quasi cinico oggi leggere la notizia della direttiva firmata dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi che evoca il divieto di ingresso a due navi di salvataggio di Ong con 326 persone a bordo, puntando a farle restare fuori dai confini marittimi italiani in quanto “non in regola con le norme italiane ed europee”. Dal Molo questi corpi delle persone ci urlano che l’unica via è permettere la libertà di movimento, la possibilità di scegliere vie legali e sicure per scappare da qualsiasi causa non permetta loro di vivere in pace e di pensare al proprio futuro.
Alessandra governa, ligure di Zoagli (GE), da anni si occupa di commercio equo e solidale e di flussi migratori, specificatamente di richiedenti asilo e rifugiati sia sulle frontiere in entrata e uscita dall’Italia sia nel sistema di accoglienza
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