Altre Economie
Buon lavoro, cooperative sociali!
Oggi la legge sulla cooperazione sociale, la 381 del 1991, compie vent’anni. A Roma un convegno organizzato da Federsolidarietà e da Federazione Sanità: una giornata di lavori su scenari e sviluppi del sistema di Welfare in Italia.
Durante la giornata, presentazione del nostro libro "Buon lavoro".
In esclusiva sul nostro sito, anche in pdf, il dossier che abbiamo pubblicato sul numero di novembre di Altreconomia dedicato al welfare. L’esempio di una coop di Cesena racconta il ruolo del terzo settore nel garantire i diritti dei cittadini più deboli. Un movimento che deve fare i conti con mancanza di fondi e politiche ambigue.
Uffici colorati e pieni di luce. Grandi stanze con arredamenti moderni. All’esterno, un angolo riparato con ombrelloni, tavolini e sedie per riposarsi durante le pause. Una ventina di persone, per lo più giovani donne, sorridenti e indaffarate. Quasi tutte con un grave problema di salute. Benvenuti nel call center che la cooperativa sociale Asso gestisce a Cesena per conto della Ausl.
Asso è acronimo di “Agenzia servizi & supporto organizzativo” ed è una cooperativa di inserimento lavorativo che dà lavoro (buon lavoro) a oltre 100 addetti, tre quarti dei quali hanno problemi di disabilità fisica, ma, soprattutto, hanno una professionalità e intendono farla valere. La cooperativa ce la presenta Goffredo Bondi, quasi cinquant’anni, gli ultimi 15 dedicati ad Asso come amministratore: prima da volontario mentre lavorava in una associazione di commercianti (“ma non mi appassionava più”) e poi professionalmente anche come direttore tecnico.
La storia che ci racconta è un po’ come quei film di lotta sindacale in stile “Fronte del Porto”… solo che a capeggiare “i buoni”, al posto di Marlon Brando, c’è un’affabile signora in sedia a rotelle che ha fatto la dirigente di impresa tutta la vita: prima nella sua azienda e poi, dopo un grave incidente, alla cooperativa Asso. Si chiama Cristina Gallinucci, ed è la presidente della cooperativa, “il vero cuore del progetto”, dice Goffredo. I problemi di salute le impediscono di essere presente all’intervista, ma lui la cita molte volte, la chiama al telefono per farle domande e coinvolgerla.
Non a caso Asso prende le mosse dai legami di un gruppo di persone che ha condiviso un progetto: dare lavoro qualificato a persone con problemi di disabilità, e quando nasce, nel 1996, non ha nemmeno una sede vera: “Ci trovavamo in un garage con la stufa a legna”.
Il primo progetto importante arriva subito: l’Azienda Usl di Cesena mette a bando la gestione di alcuni servizi amministrativi e di sportello. Quando Asso se lo aggiudica, in Ausl sono perplessi: temono che un operatore disabile non possa reggere la quantità e il ritmo di lavoro. Alla verifica dei primi due mesi, i dubbi sono tutti fugati “perché -dice Goffredo- chi lavora con noi ci mette tutta la motivazione che ha”, e il servizio prosegue per un paio di anni senza scossoni. Tutti i ricavi di questo periodo sono destinati a pagare il personale e ad accantonare qualche risparmio: presidente, consiglieri di amministrazione, responsabile contabile sono volontari. Tre anni dopo, nel 1999, la cooperativa è pronta per un primo passo avanti: prende a Cesena un piccolo ufficio, e per qualche anno arrivano dai comuni dei dintorni richieste di servizi contabili e amministrativi che portano Asso ad avere 25 addetti, al 90% disabili.
Nel 2003, però, le cose si complicano. La Ausl mette a bando i servizi di sportello e alla gara partecipa una società di Lecce che si aggiudica il servizio offrendo un prezzo irrisorio: 4,85 euro all’ora. Asso scende in piazza, presenta un ricorso al Tar per bloccare l’assegnazione e denuncia il problema del mancato rispetto dei contratti collettivi con ogni mezzo. Nel frattempo però le settimane passano e gli operatori sono senza lavoro. Asso allora fa una scelta coraggiosa: sceglie di pagare come normali ore di lavoro tutto il tempo che ogni giorno gli operatori dedicano al presidio in piazza. Dopo i primi 4 mesi di scontro duro e di presidio l’Ausl inizia a cedere e propone ad Asso di prendere in gestione il centralino. È un lavoro poco qualificato, che non valorizza per niente la loro storia e le loro competenze. Asso rifiuta. Per dare ai soci e alla città un segnale di investimento, per di più, apre una nuova sede a Bagno di Romagna a una settantina di chilometri dalla sede centrale di Cesena. Per farsi conoscere e dare visibilità alla sua situazione inizia anche una nuova attività: in collegamento con un centro di assistenza fiscale compila dichiarazioni dei redditi “a un prezzo politico”: 22 euro; si rivolgono a loro mille persone che entrano n contatto anche con la loro vicenda, e per di più danno vita ad un servizio che la cooperativa continua a svolgere ancora oggi.
La comunità risponde a queste azioni facendo sentire a sua solidarietà, e ad Asso arrivano nuove commesse di lavoro da aziende private ed enti locali. Negli anni che seguono le attività si sviluppano in quantità e qualità: Asso inizia a gestire il data entry delle multe per alcuni Comuni in collaborazione con un’importante azienda nazionale di software e si occupa di servizi informazioni e pratiche amministrative per enti della zona.
Certo l’impegno personale e la motivazione sono fattori chiave del successo della cooperativa. “Offriamo ai nostri dipendenti condizioni di lavoro migliori che in tante altre aziende -spiega Goffredo- proprio perché siamo molto esigenti nel chiedere a ciascuno il massimo che può dare: puntiamo molto sulla responsabilità e il coinvolgimento. Controllare il lavoro degli altri è un’attività diseconomica e demotivante sia per chi la fa sia per chi la subisce. Qui gli operatori sanno valutarsi da soli e chiedere aiuto quando serve, e la cooperativa li sostiene con la formazione, la verifica delle condizioni di lavoro, la partecipazione alle scelte aziendali. D’altra parte la produttività non è un dato delle persone, ma della cooperativa”.
Oggi sono nati tanti altri progetti: Asso-turismo, che è un portale per le vacanze accessibili a chi ha problemi di disabilità. O Asso-infortunistica, un’agenzia per gestire le problematiche di infortuni sul lavoro ma anche per entrare in contatto con persone che potrebbero aver bisogno di un lavoro protetto in cooperativa. I progetti per il futuro sono ambiziosi: allo studio un franchising per coinvolgere altre cooperative in questo tipo di attività, e presto un servizio alle aziende private come tutor per facilitare l’inserimento dei disabili in azienda. Goffredo lo ripete spesso: “Un problema è un tesoro”. C’è da crederci. — (Francesca Paini)
A 20 anni dalla legge
L’impresa della porta accanto. Vicina, accessibile, perfino passionale. Ma anche efficace, professionale e a volte indispensabile: questo sono le cooperative sociali a 20 anni dalla legge 381/91. Buon lavoro tratteggia i loro valori, ne riassume le caratteristiche fondanti, sottolinea il loro contributo a sviluppo economico e coesione sociale. Le coop sociali sono “piccole grandi imprese” che prendono il welfare molto sul serio: le “tipo A” forniscono servizi alla persona che il “pubblico” spesso non riesce più a garantire. Le “tipo B” inseriscono al lavoro persone le cui storie raccontano un riscatto epico, dalla marginalità del carcere, dell’handicap, della malattia. E i cooperanti a volte sembrano un’armata Brancaleone che pure ha vinto molte battaglie. Buon lavoro. Storie e valori di 20 anni di cooperazione sociale in Italia, di Carlo Borzaga e Francesca Paini (Altreconomia Edizioni, 2011).
I dati dell’Osservatorio Isnet: due coop su cinque a rischio
I diritti sono diventati un lusso
Migliaia di utenti potrebbero perdere ogni forma di assistenza. I fondi pubblici sono passati da 1,2 miliardi a 178 milioni di euro — (Giulio Sensi)
Decine di migliaia di posti di lavoro traballano, quattro cooperative su dieci rischiano di chiudere, centinaia di migliaia di utenti delle loro attività potrebbero perdere qualsiasi forma di servizio e assistenza. Con le organizzazioni di volontariato, l’altra faccia del terzo settore, sempre più sotto pressione per rispondere alle sollecitazioni degli enti pubblici per gestire situazioni di emergenza. Sembra un bollettino di guerra, ma è uno degli effetti dei pesanti tagli ai fondi sociali che il governo, e di conseguenza le amministrazioni locali, hanno fatto negli ultimi anni. Dopo la crescita degli ultimi 20 anni, il mondo del terzo settore sta subendo duri contraccolpi che mettono alla prova la sua capacità di tenuta e anche di innovazione. Secondo una rilevazione dell’Osservatorio Isnet sull’impresa sociale, basata su un campione di 400 cooperative sociali, il 39% si trova in situazione critica, dato che nel 2007 era fermo al 15%. Solo il 25% registra una crescita economica, e sempre un 39% ha previsto nuove difficoltà in arrivo. La causa principale di questa crisi è la minor disponibilità delle Regioni e degli enti locali di fondi da destinare al sociale. La Conferenza delle Regioni e delle Province autonome ha lanciato a fine settembre l’allarme: la spesa sociale negli ultimi anni è stata sempre più delegata ai Comuni (che nel 2008 ne gestivano il 74,9%) e alle Regioni (17,3%), con quella statale che è arrivata quasi a zero nel 2011 (vedi Ae 128). Una spesa che permette, solo per fare qualche esempio, di accogliere 260mila bambini negli asili nido, di far seguire dai servizi sociali 40mila nuclei familiari e un milione di persone singole, di assistere a domicilio 90mila disabili e supportarli nella scuola e nella formazione professionale, di seguire a casa o nelle strutture residenziali 400mila anziani. Servizi che in molti casi vengono realizzati dalle cooperative sociali. Si tratta di un universo che, oltre a gestire servizi socialmente utili, crea molta occupazione. Gli addetti totali delle cooperative sociali sono oltre 317mila, di cui 229mila nelle cooperative di tipo A (gestiscono servizi socio-sanitari o educativi) e il restante in quelle di tipo B (svolgono attività diverse -dall’agricoltura all’industria- finalizzate al reinserimento di persone svantaggiate). Le stime indicano un’incidenza dei fondi pubblici sui loro fatturati del 55%, e dato che quasi la metà dei fondi pubblici giungevano dai fondi sociali nazionali che sono stati praticamente azzerati -passando da 1,2 miliardi di euro del 2008 a 178 milioni nel 2011-, si capisce in quale misura per il mondo della cooperazione sociale si profilano difficoltà e un rischio di forte perdita di posti di lavoro. Il tutto è aggravato dall’ultima manovra approvata a metà settembre, che ha introdotto un aumento delle imposte sugli utili accantonati a riserva dalle cooperative stesse per i nuovi investimenti. Gli allarmi che giungono dai territori sono molti. In Piemonte è previsto un taglio del 50% delle risorse per il welfare e il presidente regionale di Federsolidarietà Giulio Genigatti parla di “attività messe in serio pericolo incrociando i tagli degli ultimi anni con la crisi e le recenti manovre. Un settore -ha ricordato Geninatti- che in Piemonte ha circa 27.000 addetti”. La situazione è ulteriormente aggravata dai ritardi dei pagamenti della pubblica amministrazione: solo in Piemonte alcune Asl pagano le cooperative con 230 giorni di ritardo, costringendole ad indebitarsi e a sostenere i conseguenti oneri finanziari. Allarmante anche la situazione in Toscana dove la presidente di Legacoop Eleonora Vanni ha affermato si corra il rischio di mandare a casa 22.000 lavoratori. In Emilia Romagna ci sono 800 cooperative sociali che, a detta del responsabile di Federsolidarietà Gianluca Mingozzi, “vivono una situazione sempre più difficile”. Dopo anni di forte crescita, legate anche all’ingresso di ambiti di lavoro nuovi come i servizi pubblici su commissione delle multiutility come Hera, le cooperative dell’Emilia Romagna hanno subito un ridimensionamento e si ritrovano appese al filo della disponibilità economica dei Comuni, con sofferenze molto accentuate nel territorio bolognese. Più drammatica la situazione in Campania dove le cooperative e gli altri soggetti che forniscono servizi stanno chiudendo. A Napoli cooperative e associazioni si sono unite nel comitato “Il welfare non è un lusso” per denunciare lo “stillicidio quotidiano” che dipende dal grande debito che il Comune di Napoli ha nei loro confronti e dalla Regione Campania che non ha ancora sbloccato i fondi sociali né risolto la situazione dopo aver commissariato il capoluogo nei mesi scorsi. Così i ritardi nei pagamenti sono arrivati a superare i due anni, con i lavoratori che vanno avanti da mesi senza stipendio. Sono fra i 7 e i 9mila i posti di lavoro che stanno andando in fumo. Le cooperative denunciano il pericolo, già concrettizzatosi, che sempre più enti locali chiedano loro di svolgere i servizi a prezzi più bassi. L’associazione Auser-Filo D’Argento ha stimato che fra il 70 e l’80% della spesa sociale dei Comuni affidata all’esterno, coinvolge le cooperative sociali, mentre la restante quota il volontariato, con un’incidenza di quest’ultimo più alta al Sud Italia (quasi il 30%). Proprio dalle associazioni di volontariato -che si avvalgono soprattutto delle prestazioni gratuite dei propri membri- giunge la denuncia della forte pressione a cui sono sottoposte vista la mancanza di risorse delle amministrazione pubbliche. “Abbiamo avuto un calo del 50% dei posti di servizio civile volontario per i giovani -commenta il presidente dell’Auser Michele Mangano– mentre la richiesta di assistenza è salita del 30% anche a causa del taglio ai fondi per il sociale. Il bisogno di assistenza aumenta anche a causa dell’invecchiamento della popolazione e l’investimento nel sociale e nel volontariato diminuisce”. Una situazione difficile, che chiama in causa la capacità di resistere e innovare del terzo settore, di fare rete e di relazionarsi con il mondo esterno. Sempre secondo la rilevazione dell’Isnet, nel 2009 erano il 48% le cooperative che avevano sviluppato nuovi servizi o prodotto, mentre nel 2010 solo il 37% è riuscito a farlo a causa delle minori disponibilità di risorse. A vent’anni dalla storica legge sulla cooperazione sociale, la sfida è quella di riuscire a continuare ad esistere svolgendo anche un ruolo politico di rivendicazione dell’identità cooperativa. “Dobbiamo fare rete -commenta don Armando Zappolini, presidente del Coordinamento nazionale delle Comunità di accoglienza-, soprattutto sul piano dell’informazione, dedicando tempo a campagne culturali per cambiare la mentalità della gente su questioni importanti della vita”. “Quello che si sta affermando -commenta il presidente di Federsolidarietà Giuseppe Guerini– non è il modello che ci descrive, noi siamo diversi. Dobbiamo avere la forza anche di rimettere mano al mutualismo, al nostro radicamento territoriale, alla capacità di mobilitare risorse diverse anche umane e relazionali.
È finita la crescita degli ultimi anni, ma il mondo che cambia non è la fine del mondo. Ci sarà un ridimensionamento e l’aggregazione può essere anche una scelta intelligente”.
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Leggi alla voce: tagli
Legge 13 dicembre 2010 n. 220 – Legge di stabilità 2011: i dieci più importanti fondi sociali nazionali vengono cancellati o ridotti: tagli pari a quasi l’80%, da 2,5 miliardi di euro nel 2008 a 549 milioni per il 2011.
I tagli hanno colpito il Fondo nazionale politiche sociali e il Fondo politiche per la famiglia. Ridotti anche i fondi per le pari opportunità e l’accesso alle abitazioni in locazione. Azzerati quelli per la non autosufficienza, per l’inclusione degli immigrati, per i servizi dell’infanzia.
Legge 26 febbraio 2011 n.10 – Interventi urgenti in materia tributaria e di sostegno alle imprese e alle famiglie. Il cosiddetto “Milleproroghe” conferma la copertura al 5 per mille, ma con un tetto fissato a 400 milioni di euro, e 100 milioni per i malati di Sla.
Legge 15 luglio 2011 n. 111 – Disposizioni urgenti per la stabilizzazione. La prima manovra estiva taglia agevolazioni fiscali, deduzioni e detrazioni che interessano anche famiglie, disabili, organizzazioni non profit e i loro donatori. L’articolo 40 del decreto prevede tagli lineari del 5% dal 2013 e del 20% nel 2014. Il testo contiene anche la bozza di disegno di legge delega per la riforma fiscale e assistenziale, che servirà a recuperare 20 miliardi entro il 2014, tramite la limitazione dei servizi e delle prestazioni.
Legge 14 settembre 2011 n. 148 – Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo. Il decreto anticipa di un anno la scadenza dei due tagli lineari (5% dal 2012 e 20% dal 2013). Approvato con fiducia il 14 settembre, aumenta le imposte sugli utili a riserva delle cooperative. (g.s.)
24 milioni di pensioni
Nel 2009 l’Inps ha speso in pensioni più di 190 miliardi di euro, l’11,4% del prodotto interno lordo. Se si aggiungono quelle erogate dagli altri enti previdenziali -come l’Inpdap per i dipendenti pubblici, l’Inpgi per i giornalisti, l’Enpals per i lavoratori dello spettacolo- si tratta di oltre 241 miliardi di euro per un totale di quasi 24 milioni di persone che ne beneficiano. Quelle di reversibilità -che la legge delega per la riforma assistenziale vuole andare a colpire- superano ormai i 30 miliardi di euro. L’indennità di accompagnamento ammonta a quasi 13 miliardi di euro e, a differenza delle pensioni di invalidità civile, cecità e sordomutismo e degli assegni mensili di assistenza agli invalidi civili parziali, non ha limiti reddituali e viene concessa in presenza “di accertata inabilità al 100% e impossibilità di deambulare o compiere gli atti quotidiani della vita”. Le pensioni di invalidità civile ammontano invece a 3,8 miliardi di euro. Un totale quindi di 16,5 miliardi di euro nel 2010, meno del 10% del totale, ma una cifra che cresce ogni anno come cresce il numero delle persone che vi beneficiano, arrivato a 2,7 milioni, circa il 5% degli italiani. (g.s.)
Le associazioni dei disabili protestano
Se i più deboli pagano per tutti
La legge delega pensata dal governo scarica sull’assistenza il compito di recuperare 20 miliardi di euro entro due anni. Ma una riforma del sistema è necessaria — Giulio Sensi
“Un prelievo eccessivo e distorto che andrebbe bilanciato da risorse per assicurare servizi adeguati”. La stroncatura dell’idea di assistenza ai non-autosufficienti che anima il governa arriva dalla Corte dei Conti, la quale ha bocciato la legge delega che il governo ha inviato al Parlamento a luglio e che dovrebbe riformare il sistema fiscale e assistenziale, recuperando dalla spesa per l’assistenza, a detta del ministro dell’Economia Giulio Tremonti, 20 miliardi di euro entro due anni. L’effetto, secondo Pietro Barbieri, presidente della Fish (Federazione italiana per il superamento dell’handicap) sarebbe la “perdita dell’assistenza per un disabile su tre, perché il governo vuole recuperare circa un terzo di quello che spende ogni anno”. Ma la bocciatura è una prima soddisfazione per il mondo del terzo settore che guarda con preoccupazione a una riforma che prefigura un cambiamento radicale del sistema del welfare, soprattutto nelle regioni in cui i servizi sul territorio per anziani e disabili sono meno sviluppati. Il testo di legge, che dà mandato al Parlamento entro due anni di legiferare, è composto da dieci articoli, nove dedicati alla riforma fiscale, con l’introduzione delle nuove aliquote e altri provvedimenti da attuare, e il decimo in cui si parla propriamente della riforma dell’assistenza. Di indicazioni, in verità, il governo ne dà diverse, preoccupando, e disorientando, le associazioni che si occupano di questi temi: revisionare l’Isee -l’indicatore della situazione economica equivalente che stabilisce la quota di partecipazione ai costi-; riordinare i criteri con cui si calcolano i requisiti di reddito e di patrimonio per avere diritto alle pensioni; armonizzare i diversi strumenti di sostegno ai “bisognosi”; introdurre un fondo gestito dalle Regioni; trasferire ai Comuni il sistema della “Carta acquisti” per i più indigenti; attribuire all’Inps tutte le erogazioni e il fascicolo di ciascun utente. La vaghezza del testo di legge -e il suo mettere insieme questioni diverse- porta gli interlocutori alla cautela, ma l’intento è conclamato: riordinare i criteri di accesso alle indennità per restringere la popolazione e risparmiare soldi a favore, per citare la legge, “dei soggetti autenticamente bisognosi”. Un’espressione strana da trovare in un testo di legge del terzo millennio, che riporta il dibattito sui diritti sociali indietro di secoli. “Si vogliono colpire i titolari di pensioni di invalidità e i titolari di assegni di accompagnamento -commenta il presidente dell’Auser, l’associazione che si impegna per favorire l’invecchiamento attivo, Michele Mangano-. Un’azione di contenimento portata avanti con la scusa di combattere, giustamente, gli abusi dei falsi invalidi. Alcune cose sono già state fatte, ma tali abusi non si puniscono attraverso operazioni come queste. Il problema di fondo è che se si abolisce o si riduce l’indennità di accompagnamento, si colpisce quello che è l’unico intervento certo per alcune regioni sulla disabilità, dove cioè non ci sono servizi sul territorio. La chiamano riforma dell’assistenza, ma sarebbe far pagare la crisi alle famiglie più deboli”. La levata di scudi, pur nel silenzio dei grandi media, è unanime, anche se sulla necessità di una riforma sono tutti d’accordo: troppe sovrapposizioni, parametri diversi per diversi tipi di disabilità, assegni come l’indennità di accompagnamento -che raggiunge soprattutto gli anziani non autosufficienti- inviati a tutti senza distinzioni di reddito. Una spesa, quella per l’indennità di accompagnamento, che è esplosa in maniera incontrollata nell’ultimo decennio, passando dai 7,6 miliardi di euro del 2002 ai quasi 13 del 2009 e richiama il governo a porre criteri sempre più stringenti e sollecitare controlli a tappeto che hanno già portato alla revoca di oltre 20mila prestazioni di indennità che ammontano a 480 euro al mese. Un assegno utile per molti a pagare, spesso a nero, una parte degli stipendi delle badanti che assistono i nostri anziani, visto che i servizi pubblici di assistenza sono sempre più scarsi e oggetto di tagli sempre più consistenti. —
In Lombardia basterebbe ridurre la spesa sanitaria dell’1,8%
I tagli non necessari
Aumentare l’efficienza e recuperare risorse è possibile, senza stravolgere i servizi. Le proposte di Federsolidarietà, Lombardia Sociale e Irs — Francesca Paini
“La linearità è una cura dimagrante -dice Giuseppe Guerini, presidente di Federsolidarietà, riferendosi alla politica di tagli attuati dal governo-. Se sei obeso o anoressico digiuni allo stesso modo, ma gli effetti sull’organismo sono molto diversi. In Italia ci sono 600 provvedimenti che definiscono ‘facilitazioni’ e ‘agevolazioni fiscali’: invece che tagliare in modo lineare tutti allo stesso modo, si possono pensare agevolazioni rilevanti per chi spende i propri soldi per garantirsi qualche misura di ‘welfare fai da te’. Le famiglie oggi dedicano 9 miliardi di euro all’anno per pagare il lavoro delle badanti: anche la fiscalità le può sostenere”.
Da chi si occupa di politiche sociali arrivano anche altre ipotesi di lavoro per garantire diritti minimi a che è più in difficoltà. Una proposta viene da Lombardia Sociale (www.lombardiasociale.it), sito indipendente di valutazione diretto da Cristiano Gori. Assumendo come vincolo il taglio delle risorse, mette in discussione il modo in cui le regioni (a cui la Costituzione assegna le competenze in materia assistenziale e sanitaria) allocano la spesa tra investimenti in sanità e quelli in welfare sociale -dagli asili nido all’assistenza domiciliare-. Lo studio in particolare analizza dalla spesa della Regione Lombardia ed evidenzia come il 65% del budget complessivo sia destinato alla spesa sanitaria e solo il 7% a quella sociale. Basterebbe quindi spostare l’1,8% delle molte risorse dall’ambito medico a quello assistenziale per accrescere la spesa sociale del 25%. Si tratta di un’operazione che non graverebbe in modo eccessivo sulla tutela della salute: un taglio dell’1,8% potrebbe probabilmente essere compensato da una più attenta riduzione di sprechi e dispersioni. In compenso, l’esiguo budget della spesa sociale avrebbe un incremento che non ha avuto eguali negli ultimi anni, e ciò consentirebbe anche di compensare da parte delle Regioni gli effetti negativi dei tagli applicati dal governo.
Effetti analoghi, anche se con percentuali diverse, si potrebbero ottenere applicando questo schema nelle altre regioni d’Italia, perché ovunque nel nostro Paese la spesa sanitaria ha volumi e incidenze significative. Un’altra proposta di ridefinizione della spesa viene dall’Irs, Istituto per la ricerca sociale, che da 40 anni si occupa delle politiche socio-sanitarie italiane e ha pubblicato a settembre un rapporto (“Disegnamo il welfare di domani”) in cui illustra il proprio progetto. Tra i tanti suggerimenti, ha posto anche l’attenzione sulla sua funzione redistributiva che dovrebbe contribuire anche a portare risorse laddove mancano. La proposta dell’Irs parte dal presupposto che sia sorprendente che alla metà più ricca delle famiglie italiane affluisca il 34% degli assegni familiari, il 24% delle pensioni sociali e il 58% degli assegni di accompagnamento. Basterebbe legare l’entità dell’erogazione ai redditi delle famiglie per ottenere una più equa distribuzione delle risorse. Ipoteticamente, riducendo la spesa pubblica in quei settori per il 30% più ricco delle famiglie, si renderebbero disponibili fino a 4 miliardi di risorse. —
Intervista al sociologo Marco Revelli
Quando il dono smantella i diritti
“Si sta affermando un conservatorismo caritatevole basato su una cultura reazionaria, ostile al welfare moderno” — Giulio Sensi
Marco Revelli, storico e sociologo, già presidente della Commissione d’indagine sull’esclusione sociale voluta dal governo Prodi nel 2007, non ha dubbi: “Dietro la logica del dono si assiste allo smantellamento dei diritti”.
Nel dibattito pubblico e nelle politiche pubbliche sembra di assistere a un salto indietro di secoli nel trattamento dei temi sociali. Siamo di fronte al ritorno della logica imperante dell’elemosina che soppianta i diritti?
“Mi pare che questa sia un’ideologia esplicita del ministro del Welfare Maurizio Sacconi e dell’asse che ha stabilito con una parte del terzo settore, in particolare Compagnia delle Opere e Comunione e Liberazione, e con un pezzo del movimento cattolico. Una dichiarata apologia della logica del dono che è ovviamente ‘virtuoso’, ma è ‘vizioso’ il modo con cui viene inneggiato in contrapposizione a quella dei diritti che invece vengono considerati di ‘carta’. Si sta affermando un conservatorismo caritatevole basato su una cultura reazionaria di spersonalizzazione di logiche e ripersonalizzazione di altre ben diverse. Lo trovo un elemento carico di ostilità antimoderna nei confronti delle logiche di welfare faticosamente affermatesi nel corso del secolo scorso, con l’aggravante che è teorizzata da chi ha responsabilità politiche e istituzionali”.
È sempre più frequente il ricorso al dibattito sulla “big society” di matrice anglosassone, ma che valenza reale assume nel contesto italiano?
“L’immagine è grottesca quando viene agitata: da una parte è retorica, ma dall’altra nasconde una pratica di spoliazione e smantellamento dei servizi, un ritorno al familismo amorale. Anche il discorso che è stato portato avanti sulle politiche di contrasto alla crisi e l’enfasi sugli ammortizzatori sociali lo dimostra: significa trasformare le famiglie in strutture di redistribuzione di un reddito sempre più scarso e restituire tutta la centralità al ‘padrone di casa’, il padre di famiglia, a scapito di donne e figli. Prefigurano un ritorno al patriarcato duro”.
Le ultime rilevazioni sulla raccolta fondi nel non profit dicono che se sono in forte calo le risorse per il sociale e la solidarietà di enti pubblici, fondazioni bancarie e aziende, ciò non accade per i privati cittadini: chi se lo può permettere continua a donare. È esagerato parlare di un’elemosina che diviene dannosa e controproducente?
“L’elemosina è per sua natura discrezionale, viene offerta a chi si sceglie a scapito di altri che ne rimangono scoperti. Non c’è alcuna garanzia e spesso stabilisce forme di dipendenza tra donatore e ricevente. L’Italia, insieme all’Ungheria e alla Grecia, è l’unico Paese in Europa a non avere introdotto il reddito di cittadinanza, un’idea che contiene una cultura che il ministro Sacconi e il governo hanno esplicitamente rifiutato”.
Che impatti ha questo contesto sul terzo settore italiano?
Il contesto istituzionale condiziona e crea le condizioni di competizione permessa fra le diverse strutture: quando non c’è un potere pubblico che garantisce standard minimi a partire dai quali poi si dispiegano le azioni di solidarietà allora i rapporti si corrompono. E questo è il rischio che si sta manifestando in maniera sempre più forte”.
Quali sarebbero invece le parole d’ordine da cui ripartire a cominciare dal locale per ridisegnare un welfare equo e sostenibile?
“È dimostrato da pratiche diffuse in molti luoghi come la dimensione virtuosa sia una condizione di mix di soggetti che agiscono e partecipano a livello locale: il pubblico con tutte le sue ramificazioni, a cominciare dai Comuni, poi il terzo settore con le cooperative sociali e il volontariato che è un presidio fondamentale sul territorio, utile a verificare sul campo l’impatto delle politiche, le Fondazioni bancarie, a patto che cooperino sul territorio con gli altri soggetti e non si sostituiscano ad essi cercando più visibilità. Questo copione paritario funziona, ma salta quando non ci sono risorse e si scaricano sul volontariato tutta una serie di servizi per poterli ottenere a prezzi più bassi”. —