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Diritti

Il tesoro delle frequenze a cui lo Stato rinuncia

Una delle occasioni per trovare le risorse per ridurre il deficit e scongiurare una crisi del debito era a portata di mano, ma, come da copione, chi governa questo paese non ha voluto vederla. 

Nel passaggio, tutt’ora in corso, dall’analogico al digitale c’è stata una moltiplicazione delle frequenze televisive: nello spazio di un canale analogico ce ne stanno circa 5 digitali. Attualmente le televisioni pagano allo stato circa l’1% dei propri ricavi per utilizzarle. Le frequenze sono un bene pubblico che lo Stato dovrebbe utilizzare per favorire il tanto decantato pluralismo dell’informazione. 

Nel Regno Unito circa un terzo delle frequenze verrà messo in vendita all’asta, in Francia si è stimata in 25 miliardi di euro la cifra che potrebbe ricavare lo Stato, negli Stati Uniti sono stati già incassati 19 miliardi di dollari.

In Italia l’Agcom ha approvato una delibera per la completa digitalizzazione delle reti televisive italiane in cui si prevede la totale assegnazione delle frequenze alle televisioni nazionali: quattro canali a Rai e Mediaset, tre a Telecom Italia, due a Rete A (Gruppo Espresso-Repubblica), uno ad Europa TV.

Per non creare differenze di trattamento con la tv commerciale Mediaset, l’Agcom ha deciso di affidare le frequenze rimaste tramite asta non competitiva (beauty contest), non al rialzo, ma sulla valutazione dell’offerta di programmi. 

In questi giorni il Pd e l’Italia dei Valori hanno chiesto al governo di recuperare 4 miliardi, circa un decimo della manovra, dall’asta delle sei frequenze che devono ancora essere assegnate con il "beauty contest".

Una proposta interessante che risolverebbe una parte dei problemi del deficit, ma non quello del mercato televisivo italiano. La maggior parte delle frequenze sono già state assegnate alle grandi televisioni dell’oligopolio italiano le quali trasmettono pagando molto poco. Basterebbe chiedere anche a loro di rinunciare a questo ennesimo privilegio. 

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