Diritti
Tutti possono vendere armi
Eludere i controlli sull’export militare è facile. La legge ha 20 anni ma la sua riforma è un rischio
Un imballaggio, un pacco e una scarna lettera di vettura come accompagnamento. Basta solo questo a un’azienda per far uscire dall’Italia, e circolare chissà dove nel mondo, pezzi e componenti di sistemi d’arma. In barba alla legge italiana in materia (la 185/90 fresca di ventesimo compleanno) che prevede invece tutta una serie di autorizzazioni incrociate. Una legge dagli alti standard di trasparenza ma che non è difficile aggirare tenendo nascoste spedizioni -per le quali magari non si dispone dei prescritti documenti- con meccanismi elementari.
Lo conferma ad Altreconomia una fonte interna all’area spedizioni di una grande azienda di produzioni militari italiana, che dobbiamo mantenere anonima: tutto parte da semplici operazioni di spedizione merce, come succede ogni giorno in milioni di imprese italiane. “Poiché il materiale cui non si applica la legge 185 viaggia con una semplice lettera di vettura e senza necessità di licenze, basta che il magazzino autocertifichi che l’imballo non contiene parti d’arma e il gioco è fatto”. Banale e sconcertante: ciò è possibile perché mancano controlli seri, da effettuare su tutto quanto proviene da una industria bellica a prescindere dai documenti di accompagnamento. Basta infatti far circolare la merce senza disegno tecnico (unico elemento in grado di far discriminare se ci si trova o meno davanti ad una parte di arma di natura militare): non c’è nessuna possibilità di verificare appieno spostamenti e corrispondenza alle autorizzazioni.
Continua la nostra fonte: “Nella lettera di vettura è sufficiente elencare codice e quantità e non serve nemmeno una descrizione testuale del contenuto. Utilizzando una codifica dei materiali particolare (‘parlante’ solo per il mittente e destinatario) e non allegando disegno tecnico, nessun controllore potrà mai verificare che quei pezzi sarebbero dovuti rientrare nelle prescrizioni di spedizione previste dalla legge”.
Per la 185/90 infatti qualsiasi esportazione di materiale d’armamento (o sue componenti) deve ricevere un’autorizzazione preventiva che ne definisca quantità e controvalore, oltre a individuare precisamente mittente e destinatario del trasporto.
Invece basta chiamare con un termine qualsiasi una parte di elicottero o di cannone per renderla del tutto simile ai pacchi di riviste che spediamo ogni mese alle botteghe del commercio equo.
Un altro stratagemma di occultamento, più raffinato, prevede il ricorso sistematico alla figura tecnica del “kit”. Sotto questo nome vengono classificati materiali di uso comune diversi dalle parti d’arma, e cioè viti, perni, dadi, rondelle, molle, bulloni, guarnizioni, oli e grassi o altri materiali di consumo. L’elenco dei “kit” serve ovviamente a diminuire il numero di pacchi per cui si chiede la licenza, e così a velocizzare autorizzazioni e controlli. Un meccanismo che potrebbe sembrare sensato, ma sul quale la nostra fonte ci mette in allarme: “La legge 185 (anche dopo le modifiche del 2003, ndr) non definisce i kit e non ne limita la possibilità di utilizzo. Per cui come kit si fa passare, quando serve, tutto il materiale da spedire. Anche parti d’arma con relativo disegno tecnico per le quale non si hanno licenze residue e non si potrebbe aspettare ulteriormente un mese, tempo medio di attesa di nuove licenze”. Le aziende possono così allentare le maglie del controllo ogni volta ce ne sia la necessità o il vantaggio, aiutate in questo dalla mancanza di criteri di sorteggio o rotazione dei funzionari di dogana e dal fatto che nessun ufficio tecnico statale sia chiamato a valutare se effettivamente un materiale trasportato, per cui si chiede licenza, costituisca o meno parte d’arma cui applicare la 185.
“La realtà è che non c’è quasi bisogno di aggirare la legge, basta semplicemente che il mittente non voglia dichiarare una spedizione come pertinente alla 185” conferma Carlo Tombola di Opal (Osservatorio permanente sulle armi leggere, www.opalbrescia.it), tra i massimi esperti di logistica delle armi. “Tutte le normative sulle armi sono deboli in partenza se non c’è controllo preventivo delle spedizioni, che si potrebbe fare associando nella responsabilità di quanto viene trasportato il vettore. Soprattutto quelli stradali: la catena multimodale della logistica inizia sempre sulla gomma”.
Ma ciò non è ovviamente ben visto dalle industrie del settore, che anzi continuano a rimarcare di sentirsi invischiate in “lacci a lacciuoli” e di essere in “difficoltà di attendere a tutti i passaggi burocratici delle leggi sull’esportazione”.
Tali parole contrastano in maniera stridente con i fatti ed i numeri, che vedono invece nel 2009 il record sia di autorizzazioni alla vendita rilasciate dal Governo (4,9 miliardi di euro) sia di consegne effettive di materiale militare (2,2 miliardi di euro). Il tutto con una legge che, sebbene sia tra le più evolute al mondo e garantisca un alto standard di trasparenza, si ritrova dei buchi non indifferenti in cui, come si è visto, è possibile infilare molte cose.
Una legge, poi, con data di scadenza al 30 giugno 2011, perché dopo anni di annunci e di caute riflessioni il Governo italiano ha compiuto a fine settembre il suo passo ufficiale: la 185/90 verrà riscritta attraverso lo strumento della legge delega. Il disegno di legge di iniziativa governativa è approdato a ottobre in Parlamento per un percorso che prevederebbe, se approvato, la concessione al Governo di poteri legislativi (con paletti e tempi precisi fissati dalle camere) su tutta la materia. Una decisione così forte viene giustificata soprattutto dalla necessità di rispettare i tempi di recepimento della direttiva 2009/43 dell’Unione Europea, resa esecutiva dalla Commissione per “semplificare le modalità e le condizioni dei trasferimenti all’interno delle Comunità di prodotti per la difesa”.
Da qui l’orizzonte finale di metà 2011, per non arrivare a una nuova procedura di infrazione contro l’Italia.
Il rischio fondato però è quello di intervenire malamente su una situazione già di per sé non ottimale introducendo le novità più significative previste dalla legge europea senza rafforzare adeguatamente meccanismi e strutture di controllo. Fra qualche mese dovranno infatti diventare operative la “Licenza generale” e quella “globale” che si applicano direttamente a tipi di materiale e a industrie e non a singole vendite come succede ora (e come resterà in vigore per alcuni casi con la “Licenza specifica”). Una volta armonizzata la legge, per alcune categorie di materiale, presumibilmente a basso contenuto tecnologico, non sarà necessario dire nulla in anticipo con il rischio (già presente ora per i “kit”) di far convergere nelle spedizioni di tale natura anche pezzi fondamentali e rilevanti. E alcune aziende, dopo un percorso di certificazione e solo per alcuni tipi di sistemi d’arma o componenti, riceveranno un beneplacito iniziale e illimitato al trasferimento, previa solo la propria autocertificazione che una spedizione si riferisca effettivamente a quella componente o a quel materiale. Una impalcatura ancora più “a groviera” quindi, soprattutto perché il regime di controllo da parte delle strutture statali si sposterà da un sistema di autorizzazioni preventive a uno di accertamenti successivi ai trasferimenti e alla vendita. Certamente il fatto che tali controlli verranno effettuati “sul campo” e in azienda da funzionari appositi è un passo avanti rispetto al mero controllo documentale attuale, ma trattandosi di ispezioni “a campione” non potrà essere garantita alcuna efficacia reale trattandosi di flussi di grande quantità e grande controvalore. Questi controlli verranno finanziati “ad hoc” con un’imposta diretta sulle aziende di armi che si iscriveranno al registro degli esportatori: senza aggravio per il contribuente, dunque, ma con il meccanismo non troppo virtuoso di imprese che dovrebbero pagare (e non poco, se si vuole che le ispezioni siano tante ed accurate) per vedere messo sotto la lente il proprio business miliardario e per propria natura “delicato”. Altro elemento di debolezza della proposta elaborata dal Governo è la permanenza di una distinzione tra armi ad uso militare ed armi cosiddette piccole o leggere (i fucili, le pistole, le armi da fuoco non automatiche). È la situazione già presente ora, con le seconde regolamentate dalla legge 110 del 1975 che dà tutta la responsabilità di quest’ambito al ministero dell’Interno; il risultato è una confusione normativa e di referenti istituzionali -per l’export di pistole è il Prefetto che firma- che ancora una volta può favorire pratiche di occultamento o di vero e proprio traffico (vedi sotto).
Questa occasione mancata, cui potrebbe mettere una pezza il Parlamento, rende anche meno rilevante il recepimento, atteso dal 2003, che questo disegno di legge fa di una posizione comune Ue sugli intermediari di armi proponendo che solo aziende e non persone fisiche possano svolgere tale ruolo. Il problema è che l’esclusione delle armi leggere dalla riforma della legge sterilizza molto tale scelta, in quanto sono proprio pistole e fucili le armi maggiormente intermediate e trafficate perché le più richieste nelle aree di conflitto e dalla criminalità.
Italia crocevia dei traffici
“Quel porto non finisce mai di sorprendere”. Parola di Piero Grasso, Procuratore nazionale antimafia. Il porto in questione è quello di Gioia Tauro, in Calabria, dove alla fine dello scorso agosto sono state sequestrate sette tonnellate di esplosivo T4 (tra i più potenti al mondo e usato anche per gli attentati a Falcone e Borsellino) forse diretto alla volta della Siria per finire poi nelle mani delle organizzazioni paramilitari Hamas ed Hezbollah. Nello stesso scalo portuale furono intercettati nell’aprile 2004 circa 8000 fucili mitragliatori tipo Kalashnikov stipati in tre container insieme a caricatori e mitragliatrici pesanti: la nave battente bandiera turca proveniva dalla Romania con destinazione ignota. Nessuna segnalazione obbligatoria per legge era stata effettuata, perché le armi da fuoco (con un semplice procedimento poi revocabile da qualsiasi armaiolo) avevano subito una modifica per eliminare il sistema di sparo a raffica.
Tra questi due episodi, almeno tre inchieste ufficiali della magistratura (di una abbiamo parlato nel numero 101 di Ae) hanno messo in luce come l’Italia sia diventata sempre di più un crocevia di traffici di armi.
Alla portata di tutti, perché originati da meccanismi che non richiedono capacità criminali troppo complesse. Basta una semplice ditta di vernici a Brescia per far partire il business, come emerso dall’inchiesta della Procura di Milano che lo scorso marzo ha portato all’arresto di 7 trafficanti (tra questi, due cittadini iraniani). Il gruppo ha iniziato nel 2007 e avrebbe come ideatore un ex-dirigente della Beretta che organizzava le spedizioni di materiale militare: visori notturni di fabbricazione tedesca dichiarati però come materiale di consumo legato all’attività ordinaria del negozio bresciano. I pacchi facevano pochi chilometri e arrivavano in Svizzera attraverso una girandola di passaggi tra società italiane (una con sede a Varese) ed elvetiche. Da Ginevra, attraverso ulteriori società schermo di diverse nazionalità, i visori descritti genericamente come “Merci di provenienza comunitaria” (quindi non soggetti al rilascio di licenza per import-export) finivano a Teheran dove erano attesi da complici iraniani della banda legati al governo. Le tappe intermedie di questo meccanismo di “triangolazione” (cioè di spedizione e transito da altri Paesi per non svelare il destinatario finale) erano Romania, Gran Bretagna, Germania, Emirati Arabi Uniti. In questo caso però c’è anche l’aggravante di occultamento del tipo di materiale trasportato, non solo quindi del compratore finale, grazie alla mancanza di fatture e documenti in grado di svelarne la vera natura.
Lo stesso sistema usato in decine di voli anche per elmetti di uso militare, spolette, proiettili a carica esplosiva, materiali chimici e paracaduti. Ovviamente tutti i pagamenti correlati transitavano su conti correnti esteri.
L’arresto della banda è stato possibile perché alcuni carichi sono stati intercettati e sequestrati a Bucarest e Londra, e grazie a un’inchiesta parallela si è svelato il collegamento con gli affari dell’allora assessore lombardo Pier Gianni Prosperini. Dopo il suo arresto a dicembre 2009 con l’accusa di corruzione, è stata infatti ricostruita la rete di Prosperini per la vendita di decine di fucili Beretta all’Eritrea. Per l’azienda bresciana si trattava solo di armi da caccia destinati a cacciatori africani amici del politico italiano, che riceveva la sua provvigione come procacciatore d’affari privato in una delle cinque società off-shore a lui riferibili, tra la Svizzera e l’Austria. Ma proprio tramite queste società estere, secondo gli inquirenti, i fucili da caccia si trasformavano poi in forniture militari (con la triangolazione e l’occultamento della tipologia di prodotto) diretti alle forze armate della dittatura di Asmara. Accusata di gravi violazioni dei diritti umani e politici e dal 23 dicembre 2009 sotto embargo per la vendita di armi da parte
delle Nazioni Unite.
Venti anni, e sentirli
Da venti anni la legge 185 regola l’export militare italiano, che dovrebbe essere basato su principi di controllo e di aderenza alla nostra politica estera e non solo da ragioni commerciali.
Nonostante non sia stata in grado di impedire la vendita anche in casi problematici (e dal 2000 l’incremento medio annuale è del 18% fino ad arrivare ai record del 2009) i dati originati dalle relazioni annuali del Governo al Parlamento ci permettono di tracciare una mappa dei clienti delle armi italiane.
In questi anni sono i Paesi dell’Europa Occidentale ad aver ricevuto il maggior controvalore (7,7 miliardi di euro, il 43%) ma la preoccupazione nasce dal fatto che subito dopo si colloca l’area asiatica ed oceanica (considerando esclusi Giappone, Australia e Nuova Zelanda) con 3,2 miliardi di consegne (18%) tallonata dal Medio oriente (Africa settentrionale inclusa) con quasi 3 miliardi e il 16,5% della torta complessiva. Aree che sono sicuramente tra quelle a maggiore tensione e più grande diffusione di povertà sul pianeta.
Armamenti “made in Italy” non mancano di avere mercato residualmente neppure in Africa subsahariana (300 milioni per l’1,7% delle consegne).
Se invece il criterio di analisi non è geopolitico ma quello delle condizioni sociali e di sviluppo troviamo che le consegne totali di questi ultimi venti anni verso i Paesi del Sud del Mondo raggiungono i 7,3 miliardi di euro, cioè il 40% del totale. Il trend è in crescita proprio verso questi Paesi, nonostante la nostra legge chieda di valutare la vendita anche su parametri relativi alle libertà democratiche ed allo sviluppo umano.