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Diritti

Fuga da Finmeccanica

Commesse perse, investitori sospettosi, guai giudiziari. Il colosso italiano della Difesa vacilla, nonostante ricavi e utili da capogiro

Tratto da Altreconomia 118 — Luglio/Agosto 2010

“Sell! Vendete!”. L’invito delle maggiori banche di affari internazionali riguarda i titoli Finmeccanica, il colosso italiano della Difesa ed aerospazio controllato dallo Stato e collocato stabilmente tra le prime 10 industrie a produzione militare del mondo. Nonostante i rosei conti 2009 (ordini per 21 miliardi di euro -più 20% sul 2008-, un portafoglio complessivo di 45 miliardi -più 5%-, ricavi per 18,2 miliardi di euro -più 21%-, 700 milioni di risultato netto positivo) gli operatori di mercato sono convinti che non tutto il luccichio sia davvero d’oro. Tra febbraio e marzo Goldman Sachs ha tuonato di “continuare a vendere”, mentre per Merrill Lynch diverse erano le “aree da chiarire” con l’aspettativa di una prossima discesa del titolo. Ancora più drastica l’analisi di Kepler Capital Markets, con il taglio del 20% del prezzo di riferimento per azione e un documento titolato “Dead money”, soldi morti.
Segnali non confortanti per un gruppo che sfodera da anni conti in crescita, macinando utili ed acquisizioni di mercato da nuovo miracolo italiano. Forse non tutto quadra in quello che recentemente è stato definito il “sistema Finmeccanica”.

Ha cominciato il presidente Barack Obama, con la decisione di cancellare il contratto, già assegnato ad inizio 2005 all’accoppiata Finmeccanica-Lockheed Martin, per la costruzione del nuovo elicottero presidenziale (il “Marine One”). Un successo sbandierato ai quattro venti che avrebbe dovuto portare sul prato della Casa Bianca una versione statunitense del velivolo EH101 di Agusta Westland, ma che è stato bloccato soprattutto per il lievitare dei costi (passati da 6 a 13 miliardi di dollari). Lo stop ha provocato anche una situazione spinosa sul fronte industriale: l’ex alleata Lochkeed Martin ha voltato le spalle agli italiani che si sono quindi accordati con Boeing per il nuovo appalto voluto da Obama, creando frizioni anche sulla collaborazione per il caccia JSF F35 (cui Alenia partecipa sotto l’ombrello di Lochkeed). Non a caso il Governo Berlusconi non ha ancora dato il via libera all’acquisto dei 131 aerei previsti per l’Italia, il cui contratto si sarebbe dovuto chiudere prima della fine del 2009.
Il gruppo guidato da Pier Francesco Guarguaglini ha poi subito un altro grosso rovescio nello scacchiere mediorientale: cinque mesi fa i vertici militari degli Emirati Arabi Uniti hanno bloccato la mega-commessa da oltre 1 miliardo, annunciata in pompa magna a febbraio 2009, per l’acquisto di 48 addestratori M-346 prodotti da Alenia Aermacchi. Pare che gli emiri ritenessero incluse nella proposta contrattuale specifiche e componenti invece non previsti da Finmeccanica, e per questo si stanno di nuovo rivolgendo ai coreani della Kai.

Una situazione di imbarazzo e preoccupazione per Finmeccanica, in quanto non derivante da pressioni politiche ma da incapacità manageriale, e che rischia di mandare all’aria la penetrazione nei mercati militari emergenti (per questo più profittevoli) tessuta con pazienza negli ultimi anni. Le cronache recenti raccontano di ottimi affari -anche in prospettiva- portati a termine con Russia, India, Bielorussia, Kazhakistan e con diversi Paesi arabi (da ricordare l’acquisto dello scorso anno dei caccia Eurofigher -coprodotti da Alenia- da parte dell’Arabia Saudita) tra cui un posto d’onore spetta alla Libia. Anche se in questi caso Gheddafi ha preteso la spartizione degli utili: dal 2007 è in atto una joint-venture paritetica (la Libyan Italian Advanced Technology Company) mentre nel luglio 2009 un nuovo accordo, forse sancito dalla visita di Guarguaglini alla tenda del Colonnello piantata nel parco di Villa Pamphili a Roma, ha rinsaldato i legati tra il gruppo di via Monte Grappa ed il fondo sovrano dello Stato nordafricano. Con ottimi risultati fin da subito, anche grazie al trattato di amicizia italo-libico voluto fortemente da Berlusconi, visto che nell’ottobre dello stesso anno Selex Sistemi Integrati, controllata di Finmeccanica, si è assicurata i lavori per proteggere con sensori elettronici i confini meridionali sahariani, da cui provengono i maggiori flussi migratori che attraversano il territorio libico verso il sogno europeo.
L’atmosfera si è ulteriormente guastata nei primi mesi del 2010 con la tempesta giudiziaria che si affaccia all’orizzonte del gruppo. Diverse rivelazioni di stampa, favorite dalla pubblicazione di alcune intercettazioni e prontamente rigettate dai vertici aziendali anche grazie alle parziali smentite dagli inquirenti, hanno gettato il nome di Finmeccanica nei classici giochi italiani di maneggi e corruzione. Si tratterebbe di alcune gare pilotate e turbative d’asta, ma soprattutto di un possibile coinvolgimento del gruppo, tramite il consulente speciale Lorenzo Cola, in un oscuro affare con il faccendiere Giorgio Mokbel (lo stesso dei 2 miliardi di euro riciclati per conto della ‘ndrangheta) che in diverse intercettazioni sostiene di avere forti contatti con i “capoccioni di Finmeccanica”. La questione riguarderebbe in particolare la società informatica Digint, in cui Mokbel e soci (tra cui l’ex-senatore Di Girolamo, dimessosi e poi arrestato a febbraio in seguito ad accuse di riciclaggio) avrebbero investito circa 8 milioni di euro. Lo scopo era quello di creare un’azienda in grado di rastrellare, anche grazie alle presunte tangenti di circa sei milioni versate a Cola, diversi contratti di fornitura dalla galassia Finmeccanica, con l’ipotesi concreta di aprire un’agenzia per la rivendita di prodotti militari e per la sicurezza in tutto il centro Asia. Al di là del caso specifico, il meccanismo getta ombre sinistre sul modus operandi del gruppo: gli sviluppi di tali inchieste potrebbero puntare sull’esistenza di fondi neri di Finmeccanica, che venivano accumulati grazie a falsi contratti. In particolare si ritiene che Selex (le cui sedi sono state perquisite a giugno) avrebbe fintamente acquistato, a prezzo maggiorato rispetto a quello di mercato, materiali ed apparecchiature mai consegnate acquisendo inoltre finte società al fine di fatturare ingenti somme di denaro e creare una provvista di soldi da trasferire all’estero. D’altronde l’utilizzo di scatole aziendali nei paradisi fiscali, pratica quantomeno singolare per una società controllata dal ministero dell’Economia, è ormai consolidato nella gestione manageriale del gruppo, che proprio grazie a bond emessi dalla controllata lussemburghese Finmeccanica Finance Sa è stato in grado di reperire sui mercati finanziari i fondi necessari alle acquisizioni societarie operate di recente (in particolare quella di Drs Technology). Guarguaglini e l’azienda negano con forza qualsiasi tipo di fondi occulti, ma è invece soprattutto l’esistenza di un meccanismo di società-schermo, che stringono contratti e solo in un secondo tempo vengono acquisite dal gruppo, ad interessare gli inquirenti.
In un’intervista Guarguaglini, riguardo a Cola, ha detto solo che si tratta di un consulente di cui non si prende responsabilità al di fuori degli espliciti mandati aziendali: uno scaricabarile che punta a diminuire l’importanza di una figura in realtà probabilmente centrale nelle relazioni internazionali costruite dal gruppo nel tempo.

Sotto i colpi di queste notizie sta vacillando anche la reggenza di Guarguaglini, in sella dal 2002 e sempre confermato da governi di colori diversi, che si è visto svanire da sotto gli occhi anche altri incarichi di prestigio, tra cui la nomina ormai data per certa a vicepresidente di Confindustria, e si trova oggi stretto nella morsa di chi lo ha sempre osteggiato (il ministro Giulio Tremonti e Lega Nord in testa).

Altri dubbi ha sollevato la presenza ai vertici proprio di Selex, in qualità di presidente, della moglie Marina Grossi (“ma io la tratto come e peggio degli altri” sostiene il presidente-marito) che è stata recentemente ascoltata dai magistrati di Napoli. Al di là dei sospetti di familismo, ciò che risulta abbastanza inopportuno è che a poche ore dell’interrogatorio l’ingegner Grossi si sia presentata al ministero della Difesa per firmare il contratto di fornitura alle Forze Armate italiane di un sistema digitalizzato denominato Forza Nec (Network Enabled Capability): un nuovo supporto tecnologico dedicato all’integrazione informativa del “soldato del futuro”. Uno strumento delicato ed importante, ed anche un programma sicuramente remunerativo per l’azienda di Stato (non dimentichiamolo) Finmeccanica. Ma messo nelle mani di chi?

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