Diritti
Scuola Diaz: finalmente giustizia
La sentenza d’Appello ribalta il primo grado di giudizio e condanna i vertici della Polizia per il blitz durante il G8 di Genova
Genova, aula bunker del tribunale, martedì 18 maggio 2010, ore 23,30: il presidente della corte Salvatore Sinagra legge il dispositivo della sentenza d’appello del processo Diaz e basta guardare gli sguardi straniti dei difensori degli imputati per capire che sta accadendo qualcosa di importante e soprattutto inatteso. Il tribunale ha “osato” condannare l’intera catena di comando, assolta in primo grado. Quattro anni a Francesco Gratteri e Giovanni Luperi, tre anni e 8 mesi a Gilberto Caldarozzi: ecco i nomi che scottano, la ragione autentica dello smarrimento che si legge sul volto degli avvocati. Gratteri è capo dell’antiterrorismo, Luperi dell’Aisi (il servizio segreto civile), Caldarozzi dello Sco: stiamo parlando del gotha della polizia italiana, di uomini con importanti curriculum alle spalle. Uomini che molti considerano impunibili. Anche le parti civili, gli stessi pm Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini non riescono a nascondere una punta di stupore di fronte alla netta e chiara condanna, uno stupore appena mascherato dagli accenni di sorriso per la soddisfazione espressa poi pubblicamente. L’altissimo grado gerarchico, le promozioni ottenute a procedimento in corso, l’intatto potere del “grande capo” Gianni De Gennaro (prima al vertice della polizia, poi del coordinamento dei servizi segreti), le protezioni politiche invariate negli anni nonostante i cambi di governo: tutto questo non è bastato a salvare i tre dirigenti e gli altri funzionari scampati in primo grado alla condanna.
Stavolta il tribunale ha pienamente accolto l’impianto d’accusa dei due pm, legittimando il punto chiave della ricostruzione: durante il blitz alla Diaz, la notte del 21 luglio 2001, esisteva una precisa catena di comando, corrispondente al peso gerarchico dei dirigenti presenti. E tutti erano consapevoli dei falsi. La sentenza d’appello è insomma coerente con l’impianto dell’accusa, mentre il giudizio di primo grado aveva “salvato” gli alti dirigenti senza convincere: eppure l’attesa generale era per una nuova assoluzione dei tre maggiori imputati. Perché? Qual è la radice di questa sfiducia nella giustizia? Forse un misto di realpolitik (“come può uno stato condannare i suoi migliori investigatori?” è la domanda retorica che tutti si facevano in tribunale a Genova) e di abitudine all’abuso di potere, frutto della storia giudiziaria tutt’altro che limpida del nostro paese, dell’atavica persuasione che il potere sia intangibile, inattaccabile.
C’è una tradizione di servilismo e di sottomissione da cancellare: nel suo piccolo, la sentenza del 18 maggio 2010 va in questa direzione. Nell’insieme essa manda un potente messaggio di giustizia: la linea dell’impunità non è passata, la posizione dei dirigenti è stata valutata con serenità, senza piegarsi alle aspettative di assoluzione espresse dall’establishment. E’ un evento infrequente nella nostra storia giudiziaria e ha probabilmente spiazzato lo stesso governo, che ha frettolosamente garantito ulteriore protezione ai condannati, in attesa del giudizio della Cassazione, che non entrerà però nel merito del processo e ne valuterà solo la correttezza formale.
L’ostinazione con la quale si respinge l’ipotesi di sospendere i dirigenti condannati rischia di danneggiare ulteriormente la credibilità della polizia di stato e degli stessi funzionari, che non sembrano pensare alle dimissioni. Ne uscirà mortificato anche lo spirito di lealtà alle istituzioni e alla magistratura di moltissimi agenti. Ecco il cuore della questione. Attorno a Genova G8 è avvenuta una pericolosa rimozione: non si è compreso fino in fondo che le violenze di quei giorni hanno cambiato le relazioni fra apparati di sicurezza e cittadini. La caccia all’uomo per strada, i pestaggi nella scuola, la costruzione di prove false, gli abusi nella caserma di Bolzaneto, l’omicidio impunito di Carlo Giuliani hanno cambiato la percezione dei diritti, della giustizia, della democrazia stessa. L’Italia non ha fatto i conti con questo cambiamento; o meglio: il potere lo ha fatto proprio. Le promozioni a processi in corso dei dirigenti ora condannati hanno avuto questo significato: far passare in secondo piano la tutela dei diritti dei cittadini; lo stato stava dalla parte dei suoi alti funzionari sotto inchiesta, puntava all’impunità, riducendo al silenzio anche i molti agenti disgustati dagli abusi e dai falsi compiuti al G8. Nemmeno una ricostruzione rigorosa e ormai condivisa dei fatti e sentenze di condanna in secondo grado per decine di agenti sono ritenute sufficienti a intervenire con strumenti straordinari come la sospensione.
Siamo a un punto di svolta, come dimostrano, per altro verso, i ripetuti episodi di violazioni compiute da uomini in divisa: il caso di Stefano Gugliotta, il ragazzo pestato e arrestato sotto casa a Roma senza motivo, è solo l’ultimo di una serie troppo lunga ed è arrivato all’opinione pubblica per una fortunosa ripresa filmata. La verità è che oggi le forze di polizia non hanno efficaci meccanismi di verifica e controllo né interni né esterni: l’unico è quello attuato dalla magistratura, che però ha tempi lunghissimi e viene vanificato regolarmente dall’ostruzionismo del potere politico.
Circa sei anni fa, il Comitato Verità e Giustizia per Genova, il Comitato Piazza Carlo Giuliani e l’Arci lanciarono una raccolta di firme per sostenere alcuni progetti di legge: chiedevano la riconoscibilità degli agenti in servizio di ordine pubblico, l’introduzione del reato di tortura, una commissione d’inchiesta su Genova, l’introduzione delle tecniche di nonviolenza nella formazione degli agenti. La petizione si intitolava “Mai più come al G8”: è un progetto di riforma ancora attuale, per quanto la politica lo abbia abbandonato. Oggi andrebbe aggiunto un ulteriore elemento: la creazione di un organismo indipendente di vigilanza sulle forze dell’ordine, al quale rivolgersi per le denunce e incaricato di attuare le raccomandazioni degli organismi internazionali. E’ un’urgenza, perché gli anticorpi democratici, nelle forze di polizia, rischiano di scomparire.