Ambiente / Reportage
Sulle Ande in Perù, dove gli agricoltori di quinoa difendono la biodiversità
Le richieste del mercato globale hanno spinto ad abbandonare le varietà locali della pianta, minacciata anche dal cambiamento climatico. C’è chi prova a resistere attraverso nuove forme di tutela e consumo
A Huancarani, 3.900 metri sopra il livello del mare, il latifondo non è ancora arrivato. Le chacras (terreni) di quinoa sono piccolissime e sembrano avere tutte lo stesso colore. Wuilber, agricoltore di 49 anni, lavora in una di queste. Ha il volto consumato dal sole e una piccola casetta che divide con la moglie e i suoi tre figli. “Al ‘mercato’ piacciono i grani grossi di quinoa bianca e noi ci siamo adeguati alla corrente”, racconta. Gran parte del suo raccolto finirà probabilmente negli Stati Uniti o addirittura in Italia, tra i principali importatori dopo Francia, Paesi Bassi e Germania. Luoghi lontani dall’immaginario di Wuilber, che come quasi tutti i coltivatori della regione di Puno, sulle Ande peruviane, ha imparato la tecnica dal padre, a sua volta allievo del nonno. Non ha nessuna intenzione di spezzare la tradizione, nonostante i grandi cambiamenti degli ultimi anni.
“La domanda globale ci ha fatto abbandonare molte varietà native. Alcune sono già sparite”. Per ritrovare le più tradizionali -ma ormai rare- specie di quinoa andine bisogna spostarsi 30 chilometri più a Nord, in una piccola casa del villaggio di Camacani, ai piedi del lago Titicaca. Il suo comendador (sindaco) da queste parti è conosciuto come il “guardiano della quinoa”. Sugli scaffali di legno della sua abitazione ospita infatti più di mille barattoli di vetro dove conserva altrettante varietà di quinoa. Una vera e propria banca dei semi da cui attinge regolarmente per coltivare le specie più rare e studiare così la loro reazione. “Lo faccio per evitare che vengano abbandonate”, racconta. Gli agricoltori che perdono i raccolti a causa della grandine o del gelo si rivolgono a lui. “Diversamente dai venditori e dalle cooperative, io posso dar loro semi nuovi affinché continuino a coltivare varietà adatte all’autoconsumo e non solo quelle richieste dal mercato”.
Sono passati circa settemila anni da quando gli abitanti delle Ande hanno coltivato la pianta della quinoa per la prima volta. Tra questi altipiani deserti, riconosciuti dall’Onu come “Sistemi di patrimonio agricolo di importanza mondiale” (GIAHS), gli agricoltori hanno da sempre dovuto affrontare siccità, gelo e le difficoltà relative all’intensa radiazione solare delle alte quote. La crisi climatica ha aggravato la situazione e li vede ricoprire ora un ruolo ancora più fondamentale nella conservazione del patrimonio di biodiversità locale: salvare e riscattare le migliaia di varietà di quinoa che crescono in questi luoghi. Dal 2014 -anno del boom– al 2018 le esportazioni di quinoa peruviana sono più che raddoppiate, passando da 36mila a 86mila tonnellate all’anno. A provocarlo era stato soprattutto l’Anno internazionale della quinoa, voluto dalla Fao nel 2013 per valorizzarne la biodiversità e le eccezionali proprietà nutritive, oltre che celebrarne il ruolo cruciale nel garantire sicurezza alimentare a milioni di persone. Uno spartiacque, quello dell’Anno internazionale, che fece lievitare il prezzo del prodotto peruviano dai tre dollari al chilogrammo nel 2012 agli oltre cinque raggiunti nel 2015. La sua fama di superfood (alimento dalle potenziali proprietà benefiche per la nostra salute) si diffuse poi velocemente, e da pseudo-cereale quasi sconosciuto alla base della dieta di Perù, Ecuador e Bolivia si è convertito ora in un prodotto coltivato in oltre 70 Paesi. Sebbene il Perù rimanga saldamente il primo produttore al mondo -valore complessivo intorno ai 100 milioni di dollari, che equivalgono al 2,2% del Pil- la Cina si candida a diventare protagonista di questo mercato, con politiche agricole che negli ultimi anni hanno incentivato la coltivazione di alimenti più nutrizionali e diversificati come la quinoa.
La corsa all’oro andino ha profondamente cambiato il sistema di produzione in Perù, coinvolgendo grandi produttori in zone di altitudine inferiori e sulla costa. Ad Arequipa, per esempio, gli imprenditori agricoli della quinoa hanno a disposizione appezzamenti da centinaia di ettari dove impiegano soprattutto lavoratori rifugiati venezuelani. Qui l’agricoltura è meccanizzata e le pratiche più intensive; si fa maggior uso di pesticidi e fertilizzanti chimici e l’offerta di manodopera a basso costo è sempre abbondante.
Dal 2014 -anno del cosiddetto “boom”- al 2018 le esportazioni di quinoa peruviana sono più che raddoppiate, passando da 36mila e 86mila tonnellate all’anno
Il boom ha indubbiamente aiutato anche i piccoli agricoltori andini ad affacciarsi al mercato globale, migliorando il loro stile di vita e aumentando il consumo di quinoa. “Ma i frutti di questa rapida crescita non sono stati distribuiti in maniera equa alle comunità andine”, afferma Didier Bazile, ricercatore presso l’istituto francese Cirad e leader scientifico del progetto lanciato dalla Fao in occasione dell’Anno internazionale della quinoa. Una condizione che invece non si è verificata nella vicina Bolivia, secondo produttore mondiale di quinoa, dove le cooperative di agricoltori create sin dagli anni Settanta gestiscono i livelli di produzione e scelgono le varietà da coltivare e vendere. “La sfida è trovare un equilibrio tra la coltivazione delle varietà locali per l’autoconsumo e quelle richieste dal mercato globale, anche in un’ottica di conservazione della biodiversità”, aggiunge Bazile. “È proprio quest’ultima a garantire cibo più sano e nutriente”.
Attualmente il discorso sulla crisi climatica, causa del deterioramento della biodiversità, si concentra soprattutto intorno alla mitigazione degli impatti negativi nei Paesi produttori. Resta da valorizzare invece il ruolo ricoperto dal “guardiano della quinoa” e da tutti gli agricoltori che proteggono la biodiversità. Questa rimane un elemento fondamentale per mantenere “una permanente evoluzione dei raccolti e un loro continuo adattamento alle condizioni ambientali“, per dirlo con le parole di Bazile. All’indomani dell’anno internazionale della quinoa, i ricercatori del Cirad e della Fao segnalarono l’urgenza di agire contro il deterioramento della biodiversità. Primo, allentare la pressione del mercato globale che richiede solamente alcune specifiche varietà, per esempio la quinoa bianca e dai grani grossi; secondo, promuovere l’autoconsumo familiare, senza sacrificarlo sull’altare delle esportazioni remunerative.
L’importanza delle comunità andine nella protezione della biodiversità risiede anche nella loro costante conversazione con la natura. Un dialogo prezioso che ricerca soluzioni alle calamità che minacciano i raccolti di quinoa. Questo succede anche tra gli agricoltori della comunità di Pilhuani, sempre nella regione di Puno, dove la semina e la raccolta scandiscono le stagioni delle 62 famiglie che la abitano, tra cui quella di Marcelino. “La quinoa si semina solo in alcuni giorni specifici”, racconta. “Quando c’è la luna piena, per esempio, la terra non va toccata. È un giorno in cui non si deve lavorare”. Gli agricoltori raccontano volentieri dei loro “colloqui” con le nuvole e con la terra per comprendere le pratiche agricole da adottare, quando seminare, quando raccogliere e che varietà valorizzare di fronte alle sfide imposte dalla crisi climatica.
In ottobre anche Wuilber è intento a seminare e a fare pascolare gli alpaca. Ogni tanto scrive email a ricercatori e a rappresentanti di altre cooperative per coordinare insieme nuovi progetti. Sogna di andare negli Stati Uniti ma dice che in futuro continuerà a coltivare la quinoa “perché rimane la base della nostra alimentazione”. Nonostante la dieta andina sia cambiata profondamente e sempre più Paesi stiano tentando di coltivare la propria quinoa lontano dal Perù, Wuilber non sembra preoccupato: “La nostra quinoa sarà sempre diversa”.
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