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Altre Economie

Un gioiello davvero

Swaziland, Kenya, Rwanda e Sudafrica i laboratori di “My Fair Joy”, un progetto della Bottega Solidale

Tratto da Altreconomia 137 — Aprile 2012

Con l’Africa “addosso”, e con un occhio all’Italia “dentro”. Sono i gioielli della Bottega Solidale (www.bottegasolidale.it), da oltre vent’anni protagonista del commercio equo a Genova. Orecchini e collane realizzati in carta riciclata dallo Swaziland, perle di ceramica dal Kenya, gioie in “sisal” e argento dallo Swaziland e dal Rwanda, perline della tradizione zulu dal Sudafrica e -infine- i gioielli della casa circondariale di Genova Pontedecimo.
Il progetto si chiama “My Fair Joy” (www.myfairjoy.it) “ed è un’idea che ci è venuta lo scorso anno -spiega Paolo Trucco, che segue il progetto per La Bottega Solidale-. Dal 1998 importiamo prodotti dal Rwanda, e da 4 anni abbiamo un progetto col carcere di Marassi (le magliette della linea O’press, ndr). Nel commercio equo, l’Africa purtroppo ha un ruolo molto marginale, se si guarda ai volumi e in particolar modo a quelli dell’artigianato -spiega Paolo-. Abbiamo pensato di creare quindi nuovi prodotti per gli artigiani della Copabu, e di dare sbocchi di mercato a produttori africani del fair trade che ancora non erano arrivati in Italia”. Copabu è una cooperativa di produttori artigianali di Butare, in Rwanda. Con Copabu, dalla fine degli anni 90 Bottega Solidale ha dato vita al progetto “Amahoro, artigiani di pace”. Erano gli anni immediatamente successivi alla guerra civile e al genocidio nel Paese africano. Sin da allora, nelle botteghe genovesi (e non solo) si trovano i prodotti in legno e fibra di banano. Da fine marzo arriverà anche la nuova linea di gioielli in sisal dipinto, una fibra tessile ricavata dall’agave, tutti in stile tradizionale e prodotti a mano da cinque artigiane.  Sono donne anche le artigiane che realizzano gli orecchini e le collane per Jabulani, organizzazione riconosciuta dalla World Fair Trade Organization (Wfto, www.wfto.org) del Sudafrica. Jabulani, in zulu, vuol dire proprio “gioire, festeggiare”. Sono persone provenienti dalle zone rurali dell’area di Ndwedwe, un’area particolarmente colpita dal virus dell’Hiv. I prodotti sono realizzati secondo lo stile zulu, perché questa fu la scelta che, nel 1991, prese Paula Goosen, logopedista sudafricana ideatrice dell’iniziativa. Tintsaba invece è l’organizzazione che dal 1985 produce gioielli in sisal tra le montagne di Piggs Peak, nello Swaziland. La produzione è iniziata nel 1991, e da allora sono oltre 890 le artigiane che vi si sono formate, traducendo le tecniche tradizionali in una forma d’arte. Il laboratorio per la lavorazione dell’argento apre nel 1999. Anche Tintsaba è attiva nelle zone rurali colpite dall’Hiv. Oggi impiega 17 persone, ed è socia di Wfto dal 2004.
Dai giornali e dalle riviste nascono i gioielli di Quazi Design, che sempre in Swaziland, dal 2009, dà lavoro a un gruppo di dieci donne a Sidwashini, nell’area industriale di Mbabane, capitale del Paese. Quazi Design ha presentato domanda per entrare in Wfto, e ha partecipato alla fondazione dello Swaziland Fair Trade Network (Swift).
I gioielli di Kazuri invece provengono dal Kenya, dove ogni perla di ceramica è dipinta a mano, e quindi unica. Kazuri ha una storia che parte nel 1975, quando venne creata per creare occupazione per le ragazze madri. Oggi il laboratorio -l’organizzazione è socia di Wfto e dell’Associazione britannica delle organizzazioni di commercio equo- impiega 350 donne nella zona di Karen, pochi chilometri fuori da Nairobi. I nomi delle linee dei prodotti sono un omaggio a luoghi, tribù e altri tratti significativi del Kenya.
“E poi c’è il sesto produttore: il carcere -spiega Paolo-. ‘Creazioni al fresco’ è un’iniziativa di un gruppo informale di volontari, operanti nella sezione femminile della casa circondariale. Quando abbiamo scelto di intraprendere la strada delle ‘gioie’ del fair trade, le abbiamo incontrate. Noi eravamo forti dell’esperienza delle magliette, loro cercavano sbocchi di vendita”. Si tratta di girocolli e orecchini, in pietra e argento. Sono una dozzina le ragazze che li producono, “anche se nella casa circondariale il turn-over è altissimo”.
Gli ordini per i gioielli di “My fair joy” sono partiti a marzo, e a breve collane e orecchini potrebbero trovarsi in molte botteghe del commercio equo italiane. —

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