Diritti / Opinioni
Chi s’indigna per l’epiteto “pecorella”, ma non osa criticare la polizia
L’innocua provocazione di un manifestante ha creato scandalo in molti commentatori, mentre le manganellate e le cariche gratuite delle forze dell’ordine passano inosservate. E nessuno ricorda nulla dei precedenti, a cominciare da Genova G8. Perché in Italia non si riesce a parlar male della polizia quando se lo merita?
Fa davvero impressione il coro di commenti indignati e perbenisti scatenato dal filmatino che mostra l’innocua provocazione di un manifestante della Val di Susa verso un carabiniere. Si è scomodato Pasolini, si è parlato di squadrismo, si è evocato il rischio di un’escalation di violenze, il tutto senza mostrare il minimo senso del ridicolo, nonostante l’acme della provocazione sia stato individuato – dagli indignati commentatori – nell’epiteto “pecorella”.
Epiteto, peraltro, usato dallo “squadrista” per segnalare alla telecamera che riprendeva la scena, la curiosa condizione che viviamo in Italia, un paese dove i cassieri del supermercato esibiscono sul petto un’etichetta di riconoscimento, ma i poliziotti no: e dire che si tratterebbe di una misura in favore della legalità: o qualcuno ha dimenticato l’impunità ottenuta al G8 di Genova da decine di agenti picchiatori, mai indagati perché non identificabili? (E peraltro nemmeno sottoposti a procedimenti disciplinari, ma questa è una precisa scelta dei vertici delle forze dell’ordine).
Ma in Italia non si può parlare di polizia e forze dell’ordine, se non per omaggiarle, o per scandalizzarsi se un agente fra mille è fatto oggetto di sberleffo. Vorrei chiedere agli indignati commentatori di questi giorni, perché non domandano a chi ha gradi e funzioni di comando, di rispondere ad Alberto Perino, pacifico manifestante che denuncia d’essere stato manganellato senza ragione, riportando la frattura del braccio.
E perché non si indignano, e non si preoccupano per la tenuta democratica del nostro paese, di fronte agli agenti antisommossa che aggrediscono gruppi di cittadini all’interno di una stazione. E ancora: nulla da dire sull’impiego smodato di lacrimogeni, sulle brutalità dello sgombero dell’altra sera a Bussoleno (poche righe in articoli di cronaca del tutto secondari), su Luca Abbà inseguito sul traliccio, o andando indietro di qualche mese sui candelotti sparati ad altezza d’uomo, con sprezzo del pericolo (corso dagli altri) e delle leggi?
Non voglio farne un fatto personale, ma gli indignati commentatori di questi giorni, dov’erano quando dipendenti dello stato, tenuti all’applicazione delle leggi e al rispetto dei diritti costituzionali, massacravano persone inermi durante il G8 del 2001, usando in qualche caso, ad esempio alla scuola Diaz, “armi letali” (definizione del capo del reparto che lo utiliizzò) come il manganello denominato Tonfa? Fatti antichi, non pertinenti? Mica tanto, se si pensa che le bravate di Genova, le prove tecniche di colpo di stato, secondo la definizione di Andrea Camilleri (uno che va bene ai benpensanti solo quando scrive fiction), hanno fatto scuola e sono diventate regola.
Sanno o non sanno gli indignati commentatori che la nostra polizia di stato non ha mai rinnegato gli scempi dei corpi e delle leggi compiuti in quelle tragiche giornate? Che non hanno mai chiesto scusa né alle loro vittime dirette né alla cittadinanza? Che i dirigenti – di rango nazionale! – imputati e condannati in appello non hanno subito il minimo rimprovero e oggi occupano posizioni ancora più importanti al vertice della polizia italiana?
Perché non diciamo la verità? La verità è che stiamo subendo un’offensiva autoritaria terribile, con un movimento civile, una fetta importante della popolazione valsusina che vengono criminalizzati, per affermare – più che la volontà di realizzare un’opera inutile e costosa, che non sarà realizzata per mancanza di soldi – un principio di fondo, e cioè che non c’è spazio per mettere in discussione gli affari, cioè i soldi pubblici destinati ad aziende private, né per contestare un modello di (anti)sviluppo che quanto più è in crisi, tanto meno tollera interferenze di sorta.
Gli indignati commentatori si facciano un esame di coscienza. Si domandino se non stiano partecipando più o meno consapevolmente al teatro della propaganda per la grande opera in quanto tale e si chiedano se la canea scatenata da quella “pecorella” non sia la spia di un accecamento collettivo, di un conformismo così radicato che induce a scandalizzarsi per un epiteto di troppo e a non vedere i manganelli che spezzano le ossa, i lacrimogeni che avvelenano i polmoni, le cariche senza senso e le inutili brutalità contro cittadini che manifestano – che piaccia o meno – il proprio dissenso.
Perché in Italia non è possibile parlare male delle forze di polizia, quando se lo meritano?