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Economia / Intervista

Senza equità fiscale la giustizia climatica è una battaglia persa

John Christensen è il fondatore del “Tax Justice Network”, nato nel 2003. Il gruppo riunisce avvocati, consulenti finanziari ed economisti che mappano e spiegano gli impatti dell’evasione fiscale sulla società ©Justin Griffiths-Williams

Combattere l’evasione delle grandi compagnie petrolifere e abolire i sussidi statali alle fonti fossili: ecco che cosa serve per contrastare i cambiamenti climatici. Intervista a John Christensen, fondatore del “Tax Justice Network”

Tratto da Altreconomia 226 — Maggio 2020

“Senza giustizia fiscale, la lotta ai cambiamenti climatici è destinata a fallire”. Cresciuto a Jersey, isola e paradiso fiscale sul Canale della Manica, John Christensen studia da 40 anni la finanza offshore. Nel 2003 ha fondato “Tax Justice Network”, un gruppo di avvocati, consulenti finanziari ed economisti che mappano e spiegano gli impatti dell’evasione fiscale sulla società. Recentemente, l’organizzazione ha lanciato un filone di pubblicazioni per analizzare il legame tra equità fiscale e giustizia climatica. Christensen sostiene che i due problemi non siano separabili: il primo necessario passo per avviare una transizione energetica è combattere l’evasione delle grandi compagnie petrolifere e abolire i sussidi statali alle fonti fossili, che alterano il mercato rendendo ancora competitive delle fonti di energia sempre più costose.

Signor Christensen, che connessione c’è tra evasione delle tasse, paradisi fiscali e giustizia climatica?
JC Il primo grande ostacolo per la transizione dalle fonti fossili alle energie rinnovabili è che tra i principali fruitori dei paradisi fiscali ci sono le multinazionali di petrolio, carbone e gas, che evadono le tasse sui loro enormi profitti. Ma non solo. Le stesse industrie in tutto il mondo ricevono straordinari sussidi statali: agevolazioni fiscali, sovvenzioni dirette dal governo, investimenti sulle infrastrutture. Queste aziende oltretutto non pagano i costi dei danni che provocano alla salute e all’ambiente. Le sovvenzioni pubbliche, avendo un ruolo essenziale nello stimolare la produzione e il consumo di fonti fossili, sono responsabili del 36% delle emissioni globali di carbonio provocate tra il 1980 e il 2010. Ogni anno i governi spendono tra i 160 e i 400 miliardi di dollari per sovvenzionare la produzione di petrolio, gas e carbone.

11,6 i miliardi di dollari spesi nel 2017 in Italia in sussidi a carbone, petrolio e gas

Certo, negli ultimi mesi il prezzo del petrolio è crollato a causa del Coronavirus. Ma prima di questa crisi avevamo già raggiunto il cosiddetto tipping point (punto di svolta, ndr): l’energia solare ed eolica sono ormai meno costose del carbone. Le rinnovabili oggi costituiscono investimenti più sostenibili a livello finanziario, scoraggiati però dai governi che continuano a sostenere i grandi produttori di fonti fossili. Circa la metà del valore monetario di questi sussidi nel mondo è spesa dagli Stati del Medio Oriente e del Nord Africa. Soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, l’ingiustizia fiscale impedisce di avviare una transizione che sarà possibile solo se saranno gli Stati a guidarla.
Il “Tax Justice Network” contesta questo abuso delle entrate pubbliche e la conseguente distorsione del mercato, che favorisce le compagnie che più contribuiscono alla crisi climatica, inibendo gli investimenti nelle energie rinnovabili. L’abolizione dei sussidi manderebbe un forte segnale al mercato finanziario. Al momento, infatti, le fonti fossili rimangono un investimento redditizio in gran parte grazie alle sovvenzioni pubbliche che alterano il mercato. Senza questi finanziamenti, al giorno d’oggi non potrebbe esistere l’industria di fracking nel mondo: non è più profittevole. Negli Stati Uniti, quasi la metà dei nuovi investimenti diretti all’esplorazione e alla produzione petrolifera è vantaggiosa solo grazie alle sovvenzioni federali. L’obiettivo del “Tax Justice Network” è fare pressione sui governi perché smettano di investire in industrie insostenibili. Allo stesso tempo, attraverso il nuovo filone di pubblicazioni su equità fiscale e lotta ai cambiamenti climatici, vogliamo diffondere idee e saperi di esperti internazionali per accelerare la transizione.

“Il più importante compito dei politici è assicurare che le misure per il clima comportino un beneficio economico e di salute alle classi sociali più deboli”

Come si può condurre una transizione equa, i cui costi non ricadano sulla parte più povera della popolazione?
JC Esistono vari meccanismi per evitare quello che io chiamo l’errore Macron (in riferimento alle proteste dei gilets gialli scaturite dall’aumento della tassa sul carburante, ndr) e assicurarsi che il costo della transizione ricada sulle fasce più ricche. Uno dei modi per farlo è stato spiegato nella nostra prima pubblicazione del Tax Justice Focus dedicata alla giustizia climatica dall’economista statunitense Jim Boyce, che suggerisce una forma di carbon tax progressiva. Con questa tassa, le entrate che lo Stato guadagnerebbe sarebbero redistribuite direttamente a tutta la popolazione sottoforma di dividendi universali. Questo implica che a beneficiarne sarebbe chi fa minore uso di combustibili fossili, solitamente le famiglie più povere. Chi invece consuma molte fonti fossili -penso in particolare ai ricchi che hanno jet privati o yacht- pagherebbe più tasse, ricevendo comunque il dividendo. Fino ad ora il movimento ambientalista è stato sviluppato dalla classe media e per la classe media. Ora il più importante compito dei politici è assicurare che le misure per il clima comportino un beneficio economico e di salute alle classi sociali più deboli. La transizione deve essere quindi guidata dall’obiettivo progressista di una società più equa. Altrimenti, penso che fallirebbe.

Una marcia per il clima a Chicago, negli Stati Uniti. Nel 2009 i Paesi del G20 avevano concordato l’abolizione dei sussidi alle fonti fossili. Nel 2017 hanno speso 127 miliardi di dollari in sussidi a carbone, petrolio e gas © Obbosphere – Flickr

Quali difficoltà affrontano i Paesi che vogliono cooperare al fine di ridurre le emissioni?
JC Nell’Unione europea penso che il problema maggiore da tanti anni sia una politica dannosa, mirata a restringere la spesa statale. La transizione richiede investimenti massicci e l’emissione di obbligazioni europee su larga scala: gli Stati dovrebbero potersi indebitare molto di più per finanziarla. A mio avviso, l’Europa ha mancato di ambizione: fissare un obiettivo per il 2050 vuol dire non aver capito la gravità e l’urgenza della crisi climatica. I Paesi del G20 nel 2009 avevano concordato l’abolizione dei sussidi alle fonti fossili, eppure a dieci anni di distanza non hanno ancora stabilito né come né quando. Solo nel 2017 hanno speso 127 miliardi di dollari in sussidi a carbone, petrolio e gas (in Italia 11,6 miliardi di dollari). L’inazione politica si scontra con la realtà di una crisi che per molti versi è molto più grande di quella attuale del Coronavirus.

“Vogliamo fare pressione sui governi perché smettano di investire in industrie insostenibili. Vogliamo diffondere idee e saperi per accelerare la transizione”

Signor Christensen, durante l’intervento per “Tax Justice Network” “Emergenza climatica. Finanziare la transizione verso la sostenibilità” ha parlato del fantasma del Black Zero. Ci spiega di che cosa si tratta?
JC Nella nostra ultima pubblicazione del 2 aprile del Tax Justice Focus sulla giustizia climatica, l’economista tedesco Peter Bofinger ha contribuito con l’articolo “Black Zero against the Climate”. Black Zero è un concetto alla base del pensiero economico neoliberale, secondo il quale lo Stato deve sempre far quadrare i bilanci e non andare in deficit, sostenendosi con le entrate che riceve. Secondo molti economisti, tra cui Peter Bofinger, si tratta di analfabetismo economico perché lo Stato non è un nucleo familiare che deve far quadrare i conti ma può creare moneta e, soprattutto in tempi di crisi, deve creare moneta, deve agire per sostenere la società. Lo vediamo anche adesso a fronte della crisi del Covid-19: numerosi Stati stanno immettendo denaro per sostenere l’economia, circa duemila miliardi di dollari nel caso degli Stati Uniti. La mentalità Black Zero prevale in Europa da ormai 30 anni ed è una delle ragioni per le quali gli investimenti necessari ad avviare la transizione energetica non vengono fatti. Ma la paura di provocare inflazione è del tutto ingiustificata dato che abbiamo il problema opposto: la deflazione.

Come potrebbe influire la crisi attuale sulla transizione energetica?
JC Penso che la crisi provocata dal Covid-19, che avrà ripercussioni enormi sull’economia, sta creando allo stesso tempo una delle più grandi opportunità che ci si presenta da secoli di avviare una transizione verso un’economia più efficiente e con un minore impatto ambientale a livello globale. Una volta vinto il Coronavirus, i governi dovrebbero cogliere l’occasione per pianificare un Green New Deal che richiede enormi investimenti statali, non solo per contrastare i danni economici di questa crisi ma anche per stimolare un’economia che crei nuovi posti di lavoro nel settore delle rinnovabili.

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