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15 anni di “Bossi-Fini”, legge frutto di ideologia che ha fatto aumentare gli irregolari
Nel 2016 circa 64mila cittadini stranieri non hanno potuto rinnovare il permesso di soggiorno. Colpa della crisi economica, ma anche di una legge estremamente rigida, che da 15 anni segna in maniera deleteria l’accesso al mercato del lavoro per i migranti
Ha già quindici anni e non li porta nemmeno tanto bene. Al punto che persino uno dei suoi “genitori”, l’ex missino e poi leader di Alleanza Nazionale Gianfranco Fini, negli ultimi anni si è espresso diverse volte in favore di una revisione della legge 30 luglio 2002, n. 189, ovvero la “Bossi-Fini”. La norma, entrata in vigore il 10 settembre 2002, ha modificato il precedente “Testo Unico delle disposizioni circa la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero” (meglio nota come Turco-Napolitano).
È la norma che negli ultimi 15 anni -pur con diverse modifiche e revisioni- ha disciplinato l’ingresso in Italia, l’accesso al mercato del lavoro, la vita e l’espulsione degli stranieri nel nostro Paese. Una norma che subordina l’ingresso e la permanenza in Italia al contratto di lavoro; ha introdotto l’espulsione immediata con accompagnamento alla frontiera; ha dimezzato la durata dei permessi di soggiorno (da quattro a due anni) e ha aumentato (da cinque a sei) gli anni per richiedere la carta di soggiorno.
Pensata e scritta con l’obiettivo di cancellare la migrazione irregolare, la “Bossi-Fini” ha di fatto alimentato proprio quei fenomeni che voleva contrastare. “Il dimezzamento della durata dei permessi di soggiorno, all’obbligo di dimostrare un reddito ha creato negli ultimi anni un altissimo numero di rigetti alle domande di rinnovo del permesso di soggiorno –spiega Maurizio Bove, referente per l’area immigrazione della Cisl Milano-. Ci sono tantissime persone che sono tornate a essere irregolari o lo sono diventate perché non hanno un reddito sufficiente”. Sono 64mila, secondo i dati del dossier Caritas-Migrantes, i permessi di soggiorno non rinnovati nel 2016.
La crisi economica ha certamente il suo peso. Ma è altrettanto evidente che i paletti imposti dall’attuale legge sull’immigrazione rendono molto difficile -se non impossibile- per un cittadino straniero trovare un lavoro in regola. E ancor di più ritrovarlo se scivola in una condizione di irregolarità. In un Paese dove lavoro nero e “grigio”, espedienti ed evasione sono ampiamente diffusi, agli stranieri si chiede invece di agire all’interno di un sistema estremamente rigido, che non coincide con la realtà del mercato del lavoro italiano.
“La Bossi-Fini è una norma manifesto, che non solo non ha governato i flussi migratori, ma ha preparato il terreno a una società sempre più caratterizzata dalla diffidenza e dalla rabbia discriminatoria -commenta l’avvocato Marco Paggi, socio dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi)-. La migrazione per motivi economici è un tema serio, che deve essere gestito in maniera adeguata. Negli ultimi 15 anni questo non è stato fatto”.
Ugualmente severo il giudizio di Paolo Bonetti, docente di diritto costituzionale all’Università degli Studi Milano Bicocca: “Sulla questione lavorativa, le responsabilità di questo testo sono notevoli perché fece la scelta, infelice, di lasciare tutto nelle mani dei soli datori di lavoro -spiega-. Inoltre, la Bossi-Fini era stata pensata per essere una legge estremamente severa, in realtà ha portato alla più grande sanatoria della storia della Repubblica”. Con l’entrata in vigore della “Bossi-Fini”, infatti, venne varato un primo e importante intervento di regolarizzazione degli stranieri presenti sul territorio (247mila i lavoratori stranieri “sanati” i tra il settembre 2002 e il dicembre 2003 secondo l’Istat) seguito da altri due interventi analoghi nel 2009 (poco meno di 300mila richieste presentate) e nel 2012 (poco più di 100mila richieste presentate).
Per Maurizio Bove il primo e più grave errore della “Bossi-Fini”, è stata l’abolizione del cosiddetto “sponsor” che permetteva al migrante di entrare legalmente in Italia con un visto per cercare lavoro grazie alle garanzie economiche offerte da un familiare, da un conoscente o altro garante. Uno strumento che venne sperimentato per tre anni (dal 1999 al 2001) e diede buoni risultati. “I migranti in cerca di lavoro si sostenevano senza gravare sulla collettività grazie al supporto di familiari o amici. E pagavano di tasca propria le spese del viaggio senza doversi affidare ai trafficanti –ricorda l’avvocato Marco Paggi-. Tuttavia si scelse di eliminarlo per motivi puramente ideologici”.
Da quel momento in avanti tutti gli ingressi per lavoro in Italia sono stati gestiti in base al Decreto flussi “di cui oggi tutti riconoscono l’inefficacia” commenta Maurizio Bove: “L’idea che si possano incrociare domanda e offerta di lavoro a distanza, quando il lavoratore straniero si trova ancora nel Paese di origine, è semplicemente assurda”, spiega Bove. Di fatto i vari decreti flussi si sono trasformati nel tentativo di regolarizzare e quindi assumere persone che erano già presenti sul territorio italiano e che già lavoravano.
La rigidità di questo sistema (che impedisce anche di convertire in permesso per lavoro un visto turistico o un visto per studio) fa sentire ancora oggi i suoi effetti: “Abbiamo continuamente richieste da parte di famiglie e datori di lavoro che vorrebbero assumere qualcuno che conoscono o che gli è stato presentato come persona seria e affidabile -racconta Bove-. Stiamo parlando di persone che potrebbero diventare lavoratori e contribuenti. Ma che invece sono costretti a restare nell’irregolarità a causa della normativa”.
Altra scelta “sciagurata” per Paolo Bonetti è stata la cancellazione della possibilità per i lavoratori stranieri di riportare in patria i contributi previdenziali versati fin a quel momento. “Questa norma aveva due effetti: da un lato assicurava la regolarità delle coperture previdenziali ed era un potente incentivo al lavoro regolare –spiega Bonetti-. Dall’altro era un potente incentivo al rientro definitivo. Prendiamo il caso di uno straniero che debba affrontare un lungo periodo di disoccupazione: se sa di poter usufruire di un piccolo capitale è più incentivato al rientro, per continuare a vivere in condizioni dignitose nel proprio Paese, anziché restare in Italia in miseria”. L’eliminazione di questa possibilità ha rappresentato un ulteriore incentivo al lavoro nero e all’evasione.
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