Economia
148 Paesi in cerca di regole (o di interessi) – Ae 66
Numero 66 – novembre 2005 Il circo dell’Organizzazione mondiale del commercio sbarca nel gigante asiatico. L’agricoltura è al centro dei negoziati, ma a due anni dal fallimento di Cancun diminuisce la fiducia nelle trattative Dal 13 al 18 dicembre il…
Numero 66 – novembre 2005
Il circo dell’Organizzazione mondiale del commercio sbarca nel gigante asiatico. L’agricoltura è al centro dei negoziati, ma a due anni dal fallimento di Cancun diminuisce la fiducia nelle trattative
Dal 13 al 18 dicembre il circo dell’Organizzazione mondiale del commercio sbarcha ad Hong Kong, su suolo cinese. La sesta conferenza ministeriale della Wto potrebbe gettare le basi per la conclusione del ciclo di negoziati di liberalizzazione del commercio mondiale, iniziati a Doha nel 2001. Un passaggio importante del processo di globalizzazione, che potrebbe segnare anche il futuro della stessa Wto, poiché il risultato non è affatto scontato. Non c’è dubbio che con la nuova superpotenza asiatica come padrona di casa arrivare ad un accordo, seppur limitato o solamente di facciata, sarà quanto meno politically correct. Per questo assisteremo a dinamiche ben diverse dalla precedente conferenza ministeriale della Wto, tenutasi due anni fa a Cancun e finita con un clamoroso fallimento (vedi Ae numero 43) dovuto all’affermarsi sulla scena politica mondiale delle potenze economiche emergenti del Sud del mondo e ad uno scontro Nord-Sud che non si vedeva da decenni.
Nonostante le potenze del Nord del mondo nel luglio 2004 abbiano raggiunto un accordo quadro per rimettere in carreggiata l’agenda negoziale lanciata a Doha nel 2001, le trattative non hanno ancora prodotto nulla di sostanziale. Questa volta però emerge una voglia di accordo tra gli attori del nuovo “quadrilatero” (Usa, Ue, Brasile e India), vero motore delle trattative commerciali. Il Brasile di Lula si avvia verso le elezioni nel 2006 ed il presidente deve portare a casa dei risultati tangibili, anche per fare bella figura con la grande industria nazionale esportatrice che lo ha sostenuto negli ultimi anni.
Il nuovo governo indiano, sebbene sulla carta più progressista del precedente, negli ultimi mesi ha ammorbidito la sua posizione, specialmente in materia agricola, dimenticando la causa dei milioni di contadini indiani a rischio di sopravvivenza. L’Unione Europea, sotto la guida del nuovo commissario al Commercio, Peter Mandelson, fedele sostenitore della linea liberista del New Labour di Tony Blair, ha bisogno di un accordo per scrollarsi di dosso l’accusa di essere stata la principale artefice del fallimento di Cancun. Infine, gli Stati Uniti continuano a predicare che solo “più libero commercio” salverà i poveri del pianeta.
Il nuovo direttore generale della Wto, l’ex commissario Ue al Commercio, Pascal Lamy, ha parlato sin dall’inizio di settembre di “negoziato permanente”, ma sa bene che nulla è scontato, a partire dalla posizione americana. Gli Stati Uniti, stretti tra gli interessi protezionisti di numerose lobby interne e sotto la spada di Damocle del rinnovo entro la fine del 2006 da parte del Congresso del super-mandato al presidente Bush in materia di commercio, mostrano un interesse molto limitato in merito all’esito di questo ciclo negoziale, a differenza di quanto successo nel 2001, quando, sulla scorta del pesante clima politico post 11 settembre, imposero l’avvio del “Doha Round”. Dal flop di Cancun in poi gli Usa hanno perseguito con maggior impeto la via dei negoziati bilaterali e regionali, considerando la Wto solo una delle strade possibili per difendere gli interessi commerciali americani. In questo contesto ad Hong Kong probabilmente porranno un aut-aut agli altri Paesi, rimanendo pronti ad accettare un nuovo insuccesso della Wto, da imputare a responsabilità altrui.
L’agricoltura rimane il cuore di questo ciclo negoziale, ma la Wto con il suo principio del single undertaking -tutti i Paesi membri devono concordare su tutti i dossier negoziali- alla fine forzerà scambi negoziali tra i vari capitoli, senza alcuna giustificazione per la situazione economica dei singoli Paesi.
Così, quello che doveva essere un “round di sviluppo” si ridurrà progressivamente a un negoziato sull’accesso al mercato, ossia l’essenza delle liberalizzazioni commerciali. Il tutto a prescindere dagli impatti sociali, ambientali e di sviluppo derivanti dalle liberalizzazioni. Ad Hong Kong si profila, infatti, uno scambio tra un maggiore accesso al mercato agricolo del Nord del mondo per i prodotti dei Paesi in via di sviluppo a fronte di una significativa apertura dei mercati dei prodotti industriali nel Sud, nonché di quelli dei servizi, in particolare finanziari, distributivi e delle telecomunicazioni, per le grandi aziende del ricco Nord.
Uno scambio che avrebbe un prezzo politico molto significativo, specialmente in Europa, dove negli ultimi mesi le critiche alla Commissione ed alla presidenza britannica dell’Ue si sono moltiplicate. Forse si troverà una data per l’eliminazione dei sussidi all’export agricolo del Nord, ma non sarà in tempi brevi. Allo stesso tempo la “conquista” dei mercati del Sud in ambito industriale da parte delle multinazionali occidentali relegherebbe i Paesi più poveri ad una de-industrializzazione, ma metterebbe a rischio anche i mercati del Nord per quel che riguarda una revisione al ribasso delle legislazioni sociali ed ambientali, considerate come barriere non tariffarie al libero commercio.
In ogni caso con un tale accordo a perdere saranno i Paesi più poveri, a partire dall’Africa. Gli stessi africani che hanno fatto fallire i vertici di Seattle e Cancun, lasciando prematuramente le stanze dei negoziati. Questa volta è probabile che avranno meno accesso alle stanze decisionali. Lo stesso accadrà alla società civile, che le autorità cinesi intendono tenere confinata in spazi ben delimitati nella metropoli di Hong Kong, senza però intimidire gli organizzatissimi movimenti sociali asiatici che saranno presenti in forze.
Le sfide ed i problemi strutturali del commercio internazionale non finiranno ad Hong Kong, che rimane un giro di boa dell’attuale ciclo negoziale della Wto.
È giusto continuare a credere che nessun accordo è sempre meglio di un cattivo accordo, poiché oramai è chiaro che la sfida del commercio mondiale non è più Nord-Sud, ma uno scontro nel Nord come nel Sud del mondo tra due diversi modelli di economia: tra chi opera senza limiti a livello transnazionale in maniera puramente commerciale e chi vede ancora un valore da preservare nel locale ed implicazioni non solamente economiche negli scambi internazionali. E tra chi nel mercato c’è e chi, invece, è destinato ad esserne escluso sempre di più. [pagebreak]
“Mobilitatevi!”, l’invito di Tradewatch
Tradewatch, l’osservatorio sul commercio internazionale, in vista della ministeriale di Hong Kong chiama tutte le realtà della società civile, i movimenti, le ong e i cittadini a mobilitarsi. “Crediamo in un’economia costruita intorno alle esigenze dei cittadini di ogni parte del pianeta -si legge su www.tradewatch.it– siano essi lavoratori, contadini, pescatori o piccoli produttori, e intorno ai bisogni di coloro che sono marginalizzati dall’attuale sistema di produzione e commercio, come le donne ed i popoli indigeni. Siamo a favore di accordi multilaterali sul commercio internazionale, ma allo stesso tempo crediamo che questi accordi debbano essere parte di un sistema di regole ben diverse da quelle propugnate oggi dal sistema della Wto”.
L’Osservatorio online seguirà dal vivo, oltre alla ministeriale, tutti gli appuntamenti di mobilitazione previsti nelle settimane prima di Hong Kong ( l’azione di lobby globale delle ong europee sui parlamenti nazionali e su Bruxelles dell’8 e 9 novembre; le mobilitazioni del 21 novembre in occasione del “EU Informal Trade Council” a Bruxelles; il Global Action Day del 10 dicembre). Tradewatch è promosso da Campagna per la riforma Banca mondiale, Centro internazionale Crocevia, Fair, Fondazione culturale Responsabilità etica, Mani Tese, Gruppo d’appoggio italiano al movimento contadino africano, Rete Lilliput e Roba dell’Altro Mondo, e aderisce alla rete internazionale “Questo mondo non è in vendita”.
E l’equo farà lobby a Hong Kong
Per la prima volta anche il movimento mondiale del commercio equo e solidale farà lobby per spingere i negoziatori a tenere presenti, in vista di Hong Kong, le voci dei contadini e degli artigiani più poveri del pianeta. Il coordinamento Fine (per l’Italia Ctm altromercato e Roba dell’Altro mondo) ha per questo elaborato un documento che si intitola “Fair trade rules!” (gioca con la parola “rules”, “regole”, che però vuol dire anche “governa”. Il lavoro parte dai risultati raggiunti dal fair trade nel mondo: 40 anni di storia, 4mila gruppi di produttori, centinaia di migliaia di lavoratori in più di 50 Paesi in via di sviluppo inseriti in reti di relazioni commerciali equosolidali. E denuncia che “la liberalizzazione commerciale perseguita in ambito Wto impedisce agli Stati di regolare e controllare le proprie economie. Molti produttori del commercio equo sanno in prima persona che cosa hanno significato per la propria sopravvivenza le liberalizzazioni forzate”.
Tenete in mente questi nomi
A dirigere le danze a Hong Konk sarà il francese Pascal Lamy, neo direttore generale della Wto ed ex commissario al Commercio dell’Ue. Per intenderci, il maggior artefice del fallimento della ministeriale di Cancun. Il successore di Lamy alla carica di commissario al Commercio, l’inglese Peter Mandelson, proverà a negoziare per conto dell’Europa, sebbene fino adesso non abbia suscitato l’entusiasmo dei governi dell’Ue, che sembrano diffidare di lui. Il rappresentante degli interessi commerciali statunitense è il potentissimo Rob Portman, nominato lo scorso marzo dal presidente Bush.
Ogni Stato membro della Wto (in totale sono 148) sarà rappresentato dal proprio ministro del Commercio con l’estero, che avrà il compito di negoziare insieme ai suoi più stretti collaboratori. L’Italia, non avendo un ministero ad hoc, avrà come capo-delegazione il titolare del dicastero delle Attività produttive, Claudio Scajola. In pratica, però, per il nostro Paese i negoziati saranno condotti dal viceministro con delega al commercio con l’estero, Adolfo Urso, e dal ministro per le Politiche agricole e forestali, Gianni Alemanno.
Il confronto sulle barriere doganali
Scambio o ricatto
Una proposta che sa di ricatto: i Paesi meno sviluppati (Least Developed Countries) potranno avere un “round for free” (ossia ottenere un accesso privilegiato a settori di mercato europeo senza essere obbligati a un taglio drastico delle proprie tariffe), a patto che tutti gli altri Paesi un po’ più sviluppati abbattano dogane e tariffe agli affari europei.
“È questo che i negoziatori europei chiamano impegno concreto per lo sviluppo dei Paesi più poveri -denuncia Antonio Onorati del Centro internazionale Crocevia-. Se pure gli Stati Uniti taglieranno del 60% i sussidi all’export all’origine della loro concorrenza sleale, eccoli chiedere un taglio generalizzato dal 55 al 90% sulle tariffe degli altri Paesi, poveri compresi. E comunque, rispetto al totale dei sussidi agricoli distorsivi statunitensi, stiamo parlando di un taglio effettivo di appena il 2%. La stessa Europa, se dovesse bloccare i sussidi all’export, potrebbe ancora contare su tariffe sulle importazioni agricole e protezioni sulle produzioni interne da circa 60 miliardi di dollari l’anno. Noi non vogliamo che l’investimento pubblico in agricoltura finisca, ma che sia reso possibile anche per i Paesi più poveri e che vada a premiare l’agricoltura familiare e le produzioni di qualità”.
L’intenzione non è certo questa se, come ha affermato il ministro statunitense all’Agricoltura Mike Johanns “gli Usa devono utilizzare la Wto per aprire a forza nuovi mercati per i prodotti statunitensi”. E se ben 13 ministri al Commercio europei hanno scritto alla commissaria Ue all’Agricoltura Mariann Fischer Boel denunciando preoccupazioni per le concessioni che Bruxelles non è riuscita a negoziare con gli Stati Uniti.
Il problema che nessuno sembra voler risolvere è quello della sovrapproduzione. Ad esempio, lo scorso anno gli agricoltori statunitensi hanno prodotto 11,8 miliardi di unità (misura inferiore al quintale) di mais, ma hanno continuato a esportarne sempre 2 miliardi, quota di mercato rimasta invariata dalla metà degli anni 70. La sovrapproduzione viene scaricata sui mercati poveri, in forma di esportazione o di aiuto alimentare, e deprime anche i prezzi interni, crollati dai 3 dollari circa a unità di mais dell’aprile 2004 agli 1,80 dollari del 2005.
Monica Di Sisto