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I primi cento anni di Marghera. Il polo lagunare prova a ripartire

Il sito industriale veneziano ha ottenuto lo status di area di crisi industriale complessa, che permetterà alle aziende di ottenere agevolazioni e finanziamenti. Resta però il nodo delle bonifiche, con 1.621 ettari da risanare

Tratto da Altreconomia 199 — Dicembre 2017
In apertura, una fabbrica in attività lungo via dell’Azoto. Marghera nasce nel 1918 come nuovo porto di Venezia - © Marco De Vidi

Cento anni fa si ponevano le basi per quella che sarebbe diventata Marghera, la città-fabbrica che segnerà la storia recente di tutto il Nord-Est. L’accordo tra un gruppo di imprenditori veneti, guidati dal conte Giuseppe Volpi (a capo della Sade, Società di energia elettrica), il sindaco lagunare Filippo Grimani e il governo italiano, rappresentato dal parlamentare veneziano Pietro Foscari, dava l’avvio alla costruzione della zona industriale progettata dall’ingegner Enrico Coen Cagli, e di un quartiere residenziale attiguo. Il decreto, emanato il 26 luglio 1917, veniva convertito in legge nell’ottobre dello stesso anno. L’area scelta era quella del Bottenigo, zona paludosa abitata da pochi contadini e barcaioli. Si sarebbe affacciata sulla laguna, per permettere il trasporto marittimo di materie prime e prodotti finiti.

“Quest’area è tutt’altro che morta. I numeri sono ancora importanti: 13.500 addetti e 1.034 imprese attive” (Pino Musolino, presidente dell’autorità portuale)

Negli ultimi mesi è tornata l’attenzione sull’area industriale lagunare. Non solo per le celebrazioni del centenario (che dureranno fino a maggio 2018), ma anche per quella che potrebbe essere un’importante svolta per un rilancio più volte annunciato in questi anni. Lo scorso marzo a Marghera è stato riconosciuto infatti lo status di area di crisi industriale complessa, dispositivo che permette ad aziende interessate a insediarsi nel sito di ricevere agevolazioni e finanziamenti a fondo perduto per la riqualificazione. Il ministero dello Sviluppo economico ha accolto dunque le richieste della Regione Veneto, che a gennaio ha presentato il dossier di analisi sull’area industriale. Il documento prodotto dalla Regione si concentra in particolare sui settori della chimica e della metalmeccanica, a partire dal 2009, “anno in cui si è registrata un’accelerazione delle condizioni di difficoltà”. Nel dossier si parla anche della crisi del settore vetrario. L’area di crisi riconosciuta dal ministero riguarda non solo Marghera, ma tutto il territorio del comune di Venezia, che comprende anche le isole della Laguna, come Murano, celebre per la produzione del vetro. “L’area di crisi complessa sta cominciando a manifestarsi come un’opportunità effettiva di insediamento industriale -spiega Enrico Piron, segretario della Cgil di Venezia-. Entro fine anno ci sarà una prima call, con cui si capirà come impostare l’accordo di programma. Il bando poi verrà stilato tra gennaio e febbraio”. E sarà reso pubblico sul sito di Invitalia (invitalia.it), l’Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa. “Noi non abbiamo ancora nessun riscontro ufficiale, sappiamo però che c’è molto interessamento da parte di aziende che investiranno. E questo porterà nuovo lavoro”.  L’intento è quello di rilanciare un’area industriale immensa, che complessivamente raggiunge i duemila ettari (venti volte la superficie occupata dall’Expo di Milano). Che ha la particolarità di essersi sviluppata a ridosso della laguna, con canali navigabili per 18 chilometri, 40 chilometri di strade interne, 135 chilometri di binari ferroviari di raccordo. E che ha rappresentato un’importante pezzo di storia per questo territorio. Un fiume di operai al lavoro ogni giorno, provenienti dal nuovo centro abitato e dai paesi limitrofi. Nel periodo di maggior espansione, il record di occupati è del 1971, con più di 35mila addetti, la maggior parte impiegati nella chimica, in Eni o Montedison (come riporta il volume “Storia di Marghera” di Filippo Alessandro Nappi). Si stima che altrettanti lavorassero per le ditte in appalto.

Un capannone abbandonato lungo via delle Industrie, prima zona industriale. L’area è costituita da tre zone industriali: la prima risale agli anni 20, accoglieva aziende meccaniche, siderurgiche e chimiche - © Marco De Vidi
Un capannone abbandonato lungo via delle Industrie, prima zona industriale. L’area è costituita da tre zone industriali: la prima risale agli anni 20, accoglieva aziende meccaniche, siderurgiche e chimiche – © Marco De Vidi

Marghera oggi presenta un patrimonio infrastrutturale attrattivo per molti. I tanti capannoni abbandonati, che si potrebbero riutilizzare, si alternano a esempi di archeologia industriale e, soprattutto, alle numerose aziende ancora attive. Il polo, che si è sviluppato attorno al Petrolchimico, ha in realtà sempre avuto diversi settori compresenti e spesso cooperanti, dalla cantieristica navale alla metalmeccanica. E ha saputo diversificare ancora in tempi recenti, con sempre più aziende attive nei servizi e nel turismo. “Quest’area è tutt’altro che morta”, precisa Pino Musolino, neo-presidente dell’Autorità portuale, succeduto a Paolo Costa a marzo di quest’anno. “I numeri sono ancora importanti: 13.500 addetti, 1.034 imprese attive. Essere riusciti a tenere in piedi tutto questo e cercare ora di immaginare il futuro, è già un ottimo risultato”. All’Autorità di porto è demandata la pianificazione della Marghera che sarà. Per il 2018 l’Autorità portuale stima investimenti infrastrutturali per 90 milioni di euro, per favorire le attività industriali e logistiche presenti. “Inoltre abbiamo già sottoscritto dei protocolli d’intesa con i diversi atenei veneti, punteremo molto su ricerca e brevetti”, spiega il presidente del porto.

90 milioni di euro, gli investimenti infrastrutturali previsti per il 2018 per favorire le attività industriali e logistiche presenti

Marghera, con il suo porto, rappresenta una soluzione possibile anche per la crocieristica. All’inizio di novembre il “Comitatone” che riunisce ministero dei Trasporti, Regione, Comune e Autorità portuale, avrebbe stabilito che le contestatissime grandi navi non dovrebbero più passare a San Marco, ma dovrebbero entrare in laguna Sud per fermarsi proprio a Porto Marghera. Ci sono però molte realtà contrarie a questa soluzione, come l’associazione “Italia Nostra” e l’attivo comitato “No grandi navi”. Entrambi evidenziano in realtà la sostanziale inconsistenza del progetto, che dovrà essere sottoposto a verifiche di sostenibilità ambientale e per il quale non sono state ancora individuate le banchine di attracco. Gli eventuali lavori di adeguamento dei canali potrebbero ulteriormente compromettere il delicato equilibrio dell’intero ambiente lagunare, ragione per la quale le associazioni si sono da sempre battute per portare questi giganti del mare fuori dalla laguna tout court. Uno dei nodi cruciali riguarda le bonifiche. Esiste una sorta di peccato originale nella storia recente di questo sito: un articolo del Piano regolatore di Venezia del 1962 infatti stabiliva che “nella zona industriale di Porto Marghera troveranno posto impianti che diffondono nell’aria fumo, polvere o esalazioni dannose alla vita umana, che scaricano nell’acqua sostanze velenose”.

Alcuni depositi per la raffinazione del petrolio sul Canale Brentella. La lavorazione del greggio comincia nel secondo dopoguerra, con la costruzione della seconda zona industriale, la “Penisola della Chimica” - © Marco De Vidi
Alcuni depositi per la raffinazione del petrolio sul Canale Brentella. La lavorazione del greggio comincia nel secondo dopoguerra, con la costruzione della seconda zona industriale, la “Penisola della Chimica” – © Marco De Vidi

Nel 1998 Marghera è stata inserita tra i primi quattordici Siti di interesse nazionale (Sin) individuati dalla legge sui “Nuovi interventi in campo ambientale” (tra cui ci sono il petrolchimico di Gela, le acciaierie di Piombino e Taranto, l’area attorno allo stabilimento Eternit di Casale Monferrato). Si tratta di aree industriali ad alto rischio ambientale, da bonificare e mettere in sicurezza. A spese dello Stato, vista la dimensione delle aree e l’entità della spesa. L’area da risanare attorno a Marghera inizialmente si estendeva per 5.700 ettari, una superficie enorme, che comprendeva anche terreni agricoli, zone urbane e residenziali, un’ampia porzione della laguna antistante al complesso industriale. Nel 2013 il perimetro è stato ridotto di molto, poiché si è deciso di concentrarsi esclusivamente sulla bonifica delle aree industriali, con l’idea di indirizzare gli sforzi a un rapido “rilancio”, restituendo al più presto gli spazi a usi produttivi. L’area di intervento resta comunque immensa: 1.621 ettari sui 2mila del complesso industriale. La priorità al momento è di terminare i lavori di marginamento, fase che consiste nel delimitare le aree da risanare con barriere che impediscano ulteriori sversamenti in laguna. Il sistema, che prevede l’isolamento delle acque, per poi drenarle, raccoglierle e depurarle in impianti appositi, può funzionare solo a marginamenti completati.

Secondo la relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti (pubblicata a dicembre 2015), i marginamenti sono stati realizzati al 94%. E questi lavori allo Stato sono costati 780 milioni di euro. Il 70% di questi fondi proviene da aziende operanti o che hanno operato nell’area industriale di Marghera, frutto di transazioni con lo Stato come risarcimento ambientale. Le quote variano in base al grado di inquinamento riconosciuto: spicca la transazione effettuata con la Montedison, che si è accordata per più di 270 milioni di euro, seguono una trentina di altre imprese, tra cui Eni, Enel, Montefibre, Esso, Pilkington. La Commissione certifica poi che “tutte le opere sono state eseguite dal Consorzio Venezia Nuova, mediante affidamento diretto alle ditte consorziate, senza alcuna gara e senza criteri di assegnazione predeterminati”. “E noi, da parte sindacale -spiega Piron- stiamo insistendo sul controllo della filiera degli appalti, perché ci sia massima trasparenza nell’assegnazione e perché chi ci lavora lo possa fare nella massima sicurezza e con pagamenti giusti, senza ribassi ingiustificati che poi vanno a gravare sui lavoratori”.

270 milioni di euro versati da Montedison allo Stato come risarcimento ambientale

Il 6% di marginamenti mancanti costituisce la parte più complicata (visto che riguarda molte aree con tubazioni sotterranee) e la più costosa: la stessa Commissione stima in 250 milioni i costi di completamento dell’opera. Molte di queste barriere risultano però già corrose e quasi alla fine del loro ciclo di vita. E i ritardi costano. La Regione Veneto nel dicembre 2016 si è vista costretta a risarcire Sifa, società incaricata del trattamento di acque e fanghi da depurare. La concessionaria ha ottenuto 56 milioni di euro perché, in sostanza, lavora troppo poco e non incassa. Tra i maggiori soci di Sifa, società a capitale misto pubblico e privato, ci sono la Mantovani (con la quota al 47%), la Veritas (società pubblica, di proprietà di un consorzio di municipalizzate, con quota al 30%) e la Veneto Acque, quota all’8,67% per una società che fa capo proprio alla Regione Veneto. Solo a marginamenti conclusi potrà cominciare la bonifica dei terreni. Ma non esiste una tempistica certa, così come non sono quantificabili i costi. Ma la realizzazione degli interventi di disinquinamento rappresenta uno dei presupposti fondamentali per l’insediamento delle nuove attività. Siamo certi che il rilancio sia imminente?

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