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Diritti / Intervista

Sulla relazione inestricabile tra i corpi, lo spazio in cui vivono e la resistanza ambientale

A fine giugno di quest'anno al parco Don Bosco di Bologna sono stati tagliati diversi alberi per far posto a un cantiere. Chi si è opposto è stato preso a manganellate dalla polizia © Giuditta Pellegrini

Intervista a Marie Moïse, ricercatrice in Filosofia politica presso l’Università di Padova e Tolosa II, che il 29 giugno sarà una delle relatrici dell’incontro sulle pratiche ecologiche oltre la dicotomia essere umano-natura della Scuola di Resilienze di Bologna. Tra mutualismo femminista e cura di comunità

Raccogliendo e interpretando il messaggio del pensiero femminista non bianco e decoloniale, i movimenti che si battono oggi per l’affermazione dei diritti stanno dissolvendo le barriere che separavano i diversi ambiti della trasformazione sociale.
Se non è più possibile parlare di ecologismo senza partire da antirazzismo, autodeterminazione e critica della diseguaglianza su cui si fonda l’attuale sistema economico, è perché gli strumenti per superare l’antropocentrismo occidentale hanno reso la battaglia ambientale il fulcro della relazione inestricabile tra i corpi e lo spazio in cui vivono.

La lotta per la terra, ereditata dai popoli nativi, ma oggi sempre più globale e pressante, è il terreno di un acuito conflitto tra gruppi che si interpongono fisicamente a difesa degli ultimi ecosistemi e l’azione violenta dettata dalla logica estrattivista, ma anche il punto da cui è possibile ripensare una relazione non gerarchica con la natura.

Ne abbiamo parlato con Marie Moïse, ricercatrice in Filosofia politica presso l’Università di Padova e Tolosa II, che il 29 giugno sarà una delle relatrici dell’incontro sulle pratiche ecologiche oltre la dicotomia tra essere umano e natura della Scuola di Resilienze, organizzata dall’associazione Kilowatt presso le Serre dei Giardini a Bologna. Il suo attivismo nelle reti di mutualismo femminista e cura di comunità l’ha portata a intraprendere, insieme a Splash, collettivo di lavoro im/materiale di Napoli, una riflessione e dei laboratori esperienziali sul rapporto trasformativo e di guarigione con il territorio.

Moïse, da dove inizia il lavoro collettivo sul territorio?
MM
Nasce da una riflessione sulla trasformazione sociale e ambientale in chiave transfemminista: esperire i corpi come territori e i territori come corpi, in una relazione di continuità che rifiuta il paradigma per cui esistono gli esseri umani e qualcosa che ne è subordinato, per comprendere il tutto come uno stesso organismo vivente inquinato, sfruttato, espropriato. Laddove c’è espropriazione di corpi c’è espropriazione di territori e viceversa, proprio perché le due cose non sono separabili se non attraverso una mentalità occidentale coloniale che costruisce confini tra elementi di uno stesso vivente. Non si tratta tanto di trovare una postura di purezza politica, ma di orientare il cammino quotidiano con questa domanda: come non essere conniventi con il patriarcato che attraversa ogni ambito del nostro quotidiano, compresi gli spazi in cui costruiamo le alternative e sperimentiamo altri modi di stare in relazione, tra di noi e con lo spazio?

In che modo il pensiero decoloniale ha portato a ripensare la trasformazione sociale?
MM In termini radicali e complessivi. Se il cambiamento riguarda solo chi ha più risorse, poggia la sua possibilità sullo sfruttamento di chi, non solo non vi può partecipare, ma subisce l’espropriazione per l’emancipazione di una minoranza. È un meccanismo che ha attraversato molto la storia delle trasformazioni sociali.
Pensiamo all’industrializzazione che si narra come progresso, ma che a ben vedere si è basata sul furto di risorse delle terre di metà del mondo e su corpi schiavizzati. Così è stato anche per i processi di emancipazione che hanno avuto come fulcro l’Europa, e che però si sono poggiati sulle spalle di quel sud del mondo che per quell’emancipazione ha dovuto sacrificare la propria. Penso all’introduzione delle donne nel mercato del lavoro in Occidente, basata non tanto sul superamento della segregazione femminile in ambito domestico, ma sulla sostituzione con un femminile non bianco. O penso a una modifica delle condizioni di una parte della classe lavoratrice novecentesca, trasmigrata dalla fabbrica ai servizi e che oggi permane in quel settore solo grazie al lavoro che svolgono persone razzializzate e provenienti da paesi ex colonizzati, come i braccianti dell’agrobusiness, i rider o i lavoratori della logistica.

Un’attivista al parco Don Bosco di Bologna © Giuditta Pellegrini

Qual è la relazione tra violenza sui territori e violenza sui corpi?
MM Ciò che è trasversale alla violenza è l’idea del possesso. La terra è considerata non bios, di proprietà di nessuno, e quindi appropriabile. Lo stesso meccanismo si applica ai corpi delle donne e a tutti quelli abusati, schiavizzati e deportati da un continente all’altro. La dicotomia umano-natura, basata su un’idea gerarchica che vede l’umano come il vertice di una piramide, ha aperto la strada al capitalismo come sistema economico attraverso quella che Marx chiamava accumulazione primitiva: la sottrazione di risorse portate via con la forza dalla terra e da esseri viventi ridotti a rango di inferiori. E continua a funzionare così.
Quindi la riflessione sul corpo-territorio è il tentativo di svelare non solo il processo che ha generato la scarsità di risorse, ma anche come queste possono essere messe in comune per generare trasformazione ecologica e sociale.

È su questo terreno quindi che nasce la resistenza ai processi di accumulazione violenta?
MM Infatti. Al sistema di appropriazione fa gioco una narrazione che mostra come passivo, debole, incapace tutto ciò di cui si appropria. Invece per ribaltare la cornice analitica con cui guardare a quegli stessi processi è importante leggere la violenza come esito necessario di una capacità di agire, di resistere che è connaturata alla vita, perché nessuna parte del vivente di per sé accetta di essere sottomessa passivamente.
Per opporci a questa continua espropriazione quindi non possiamo accontentarci di nominare la violenza per denunciare lo stato di cose, perché questo non ci permette di capire da dove partire per modificare. Abbiamo bisogno di comprendere come alimentare le capacità di opporre resistenza dei territori e fare trama tra le diverse realtà ad oggi presenti.

Credi sia possibile trasformare le ferite del sistema in cui viviamo, che abusa e sfrutta risorse e territori?
MM Sì, iniziando prima di tutto a riconoscere la violenza che è in noi, di cui nostro malgrado ci cibiamo, che respiriamo e che poi finiamo per agire verso l’esterno. È talmente radicata che non la vediamo e allo stesso tempo siamo davanti all’illusione liberista che ci dice che possiamo salvarci singolarmente, come se ci fossero persone la cui vita non è interdipendente da tutto il resto. La domanda “come faccio a dismettere la mia connivenza come comunità con le strutture patriarcali” è un altro modo per dire come faccio a guarire.
Cominciare a prendere atto che la violenza agisce anche dentro alle nostre relazioni più trasformative, quindi, non è un fallimento, ma un passaggio fondamentale per attivare processi di cura.

Una guarigione che interessa anche la Terra in cui viviamo?
MM Come recita un vecchio slogan ecologista: “non siamo qui per difendere la natura: noi siamo la natura che si difende”. La guarigione dei corpi e della terra è parte di una medesima esperienza. Si tratta di pensare l’ecologia come il nostro mondo interiore e alla psiche come alla più interiore delle dimensioni ecologiche. Se sono stata avvelenata dentro, non sono in grado di entrare in relazione col resto del vivente senza riprodurre avvelenamento ed è impensabile pensare di guarire la propria corporeità come se fosse una monade. E’ necessario attraversare tutte le dimensioni ecologiche per comprenderne l’interdipendenza.
È quello che accade durante i laboratori esperienziali su questo tema: tracciamo una mappatura del rapporto trasformativo col territorio, cercando di creare un bacino di esperienze condivise, perché tutte le persone possono far parte di un percorso collettivo di trasformazione.

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