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Ambiente / Intervista

La complessa relazione tra aree protette, natura e capitalismo estrattivo

© paola-blaskovic - Unsplash

Un’area protetta non è di per sé garanzia di tutela dell’ambiente e in alcuni casi può favorire scontri e violenze contro i popoli indigeni. Uno studio su 474 conflitti legati proprio ad aree protette tesse le relazioni profonde con i processi di estrazione del capitale e con i movimenti territoriali. Tra i curatori c’è anche Antonio Bontempi del dipartimento di Geografia dell’Università autonoma di Barcellona

Un prezioso lavoro di ricerca su 474 conflitti legati ad aree protette nel mondo rompe la narrativa consolidata, e di comodo, sul concetto di “area protetta” e ne tesse le relazioni profonde con i processi di estrazione del capitale e con i movimenti di difesa territoriali. È stato pubblicato dalla rivista accademica Global environmental change a metà 2023 ed è stato condotto, tra gli altri, da Antonio Bontempi che lavora presso il dipartimento di Geografia dell’Università autonoma di Barcellona.

Un’area protetta non è di per sé una garanzia. Nella sintesi dello studio si leggono due punti: “le aree protette possono essere i principali motori di ingiustizie e conflitti ambientali” e allo stesso tempo “possono anche sostenere le lotte contro l’estrattivismo”. Perché è proprio l’estrattivismo la principale causa dei conflitti, come ci ha spiegato Antonio Bontempi.

Bontempi, fino a che punto le aree protette sono un problema o una risorsa, dal punto di vista sociale?
AB È proprio la domanda che ha alimentato l’idea della ricerca che abbiamo condotto e pubblicato sulla rivista accademica Global environmental change. Per rispondere abbiamo pensato di sovrapporre due mappe: l’Atlante globale della giustizia ambientale (EJAtlas) e il Database mondiale delle aree protette (Wdpa). Il primo è il risultato di uno sforzo collettivo di documentazione di conflitti sociali legati all’uso delle risorse naturali da parte di ricercatori, giornalisti e attivisti provenienti da tutto il mondo. Il Wdpa è invece una base di dati contenente informazioni su aree protette a livello globale, gestita dalle Nazioni Unite e dall’Unione mondiale per la conservazione della natura (Iucn). Agli inizi della ricerca, nel maggio 2021, l’EJAtlas e il Wdpa collezionavano, rispettivamente, informazioni su più di 3.400 casi di conflitto ambientale e 266mila aree protette. Sovrapponendole abbiamo identificato 474 casi documentati nell’EJAtlas localizzati in aree protette. Così, dopo aver studiato queste informazioni, siamo arrivati a due conclusioni principali. La prima: le attività industriali di estrazione, uso, lavorazione e smaltimento delle risorse naturali sono motori di conflitto anche in spazi dedicati alla protezione dell’ambiente. La seconda: l’area protetta può assumere ruoli molto sfaccettati all’interno di un conflitto, ovvero può essere utilizzata come strumento a servizio di svariati interessi. In questo senso può risultare sia “un’arma” di controllo del territorio da parte di governi o attori corporativi, sia uno strumento di emancipazione da parte di popolazioni indigene o movimenti ambientalisti.

Le aree protette fanno da scudo alla giustizia ambientale?
AB Basti pensare a quanto i movimenti ambientalisti usano l’idea della conservazione della biodiversità come bandiera per portare avanti le loro campagne. Dichiarare un’area protetta può frenare la speculazione delle risorse naturali. Bisogna però fare attenzione a non romanticizzare il concetto. Un’area protetta può essere a sua volta fonte di ingiustizia e creare conflitti.

Qualche esempio che chiarisca questa diversità?
AB C’è il caso del Parco nazionale Jeanette Kawas in Honduras, che prende il nome dall’omonima attivista locale che è stata assassinata perché si oppose a piantagioni di olio di palma e deforestazione illegale nell’area; ma anche quello della Riserva naturale Tanintharyi in Myanmar, istituita per compensare la costruzione di tre gasdotti nella regione, a discapito dei modi di vita tradizionali degli indigeni locali. Un’area protetta può essere impugnata in un’aula di tribunale, come nel caso del “nostro” Parco nazionale delle Dolomiti bellunesi, dove la Corte di cassazione deliberò in favore di ambientalisti locali che chiedevano lo stop alla costruzione in una diga. Altre aree protette diventano invece campi di battaglia politico-ideologici. Il caso del Bears ears national monument nello Utah (Stati Uniti) è esemplificativo: nel dicembre 2017, l’ex presidente Donald Trump ha ridotto le dimensioni dell’area dell’85%, a favore delle industrie minerarie, appena un anno dopo che l’area protetta era stata designata dal suo predecessore, Barack Obama.

Che cosa può implicare l’istituzione di un’area protetta?
AB Ci sono esempi molto contrastanti per rispondere. Condivido ciò che accade in due parti molto distanti del Pianeta. C’è il caso dell’insegnante di una scuola superiore in Mongolia, Bayarjargal “Bayara” Agvaantseren, che ha dedicato trent’anni di lotta contro l’estrazione di carbone, uranio, rame, oro, petrolio e gas nel deserto del Gobi meridionale. La sua passione per la protezione del leopardo delle nevi l’ha portata dapprima a lavorare con le popolazioni nomadi locali nella cultura della preservazione della specie, poi nella campagna per la creazione di un’area protetta. Dopo una forte pressione istituzionale, azioni legali, minacce di morte e il ritrovamento del corpo pugnalato di un collega e amico biologo anch’egli parte della campagna, il Monte Tost è stato designato riserva naturale con la revoca di tutte le licenze minerarie. Per il suo impegno, Agvaantseren ha ricevuto il Premio Goldman per l’ambiente nel 2019. Quello del Monte Tost è un classico esempio di area protetta che corona una lotta ambientalista.
Un caso molto diverso è quello della conservazione militarizzata nella regione del Liolondo, in Tanzania. Il 27 gennaio 2022, l’Indigenous peoples rights international (Ipri) ha presentato una lettera aperta al governo del Paese, chiedendo di fermare il piano di sfratto di almeno 70mila pastori indigeni Masai dalle loro terre ancestrali consuetudinarie legalmente riconosciute nell’area di Loliondo. Lo sfratto era finalizzato a far spazio a 400mila ettari di aree per il turismo safari di lusso e la caccia, a beneficio della Otterlo business corporation, con sede negli Emirati Arabi Uniti. L’appello non ha avuto successo. L’8 giugno 2022, le forze armate tanzane hanno ferito gravemente una trentina di Masai e ne hanno arrestati altrettanti nell’azione di sgombero. Quindi è stata creata l’area di “conservazione”. Negli anni i Masai hanno subito violenze, sfratti, perdita di alloggi e confisca del bestiame in nome della conservazione ambientale.

Abbiamo bisogno di più o meno aree protette?
AB Dobbiamo vedere le aree protette come degli strumenti utilizzati da diversi attori a favore di specifici fini. Quindi, come ogni altro strumento, possono essere impiegati per una transizione più o meno (in)giusta verso la sostenibilità ambientale e sociale. Dovremmo incoraggiare una comprensione intersezionale della conservazione come una complessa rete di attori e interessi in gioco. Piuttosto che studiare le aree protette in termini quantitativi, è fondamentale discutere qualitativamente ciò che l’istituzione di un’area protetta implica dal punto di vista politico e sociale. Prima di chiedersi quante siano necessarie, è urgente affrontare la questione di quale modello di conservazione si stia promuovendo. Bisogna guardare a chi favorisce l’istituzione dell’area e chiedersi quali sono le relazioni di potere tra gli attori in gioco, e come le aree protette ne cambiano gli equilibri. Personalmente, l’idea che mi sono fatto studiando questi temi, è che quello di cui abbiamo bisogno è pensare in termini di una cura integrale della biosfera, piuttosto che avanzare o meno i confini di aree protette. Invece che proteggere delle aree e lasciarne altre “scoperte”, dovremmo prenderci cura di ogni porzione della Terra, indiscriminatamente.

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