Economia / Opinioni
Welfare State, il miraggio italiano dell’equità sociale
Nel 2015, il nostro Paese ha investito 447,3 miliardi di euro per far fronte a pensioni, sanità, politiche del lavoro e assistenza sociale. Quasi un terzo del prodotto interno lordo. Da un punto di vista quantitativo si tratta di una spesa tra le più alte d’Europa. Il problema, però, è la qualità degli effetti. L’analisi di Alessandro Volpi
La spesa sociale costituisce ormai da tempo uno dei temi centrali del dibattito politico italiano. A tal riguardo, alcune analisi recenti consentono di mettere a fuoco diversi punti decisamente rilevanti.
1) In Italia la spesa totale per le pensioni, la sanità, le politiche attive e passive del lavoro e per l’assistenza sociale è stata, nel 2015, pari a 447,3 miliardi di euro, rappresentando il 54,1% del totale della spesa pubblica e il 27,3% del Pil; due percentuali che collocano il nostro Paese ai primi posti in Europa in relazione alla spesa sociale, alle spalle di Danimarca, Germania, Francia, Finlandia e Norvegia. Non è vero quindi che la spesa sociale italiana sia bassa e insufficiente ed anzi risulta decisamente significativa rispetto alla ricchezza prodotta e questa incidenza emerge ancora con maggiore chiarezza se si considera il “peso” dell’evasione fiscale, superiore in Italia di tre punti percentuali rispetto alla media europea.
2) Nell’ambito della spesa sociale occupa un posto preminente quella pensionistica pari a 217,8 miliardi nel 2015 -con un incremento dello 0,84% rispetto all’anno precedente- che, al netto delle tasse, scende a 168,5 miliardi. Il numero totale dei pensionati è sceso a 16.259.491, in calo di 80.114 rispetto al 2014, per un totale di 23.095.567 prestazioni, con un rapporto tra numero medio di prestazioni in pagamento e numero di pensionati di poco superiore a 1,4, che determina la non banale conseguenza di un innalzamento della pensione media da 12.316 a 17.323 euro all’anno. Si tratta di una spesa, nel complesso, finanziata dai contributi che assommano a 172,2 miliardi e che quindi garantiscono un bilancio previdenziale in attivo di 3,7 miliardi di euro; un risultato frutto delle dure riforme introdotte negli ultimi anni e che sembra garantire la sostenibilità del sistema, nonostante le minacce provenienti dalla perdita registrata nel 2016 dal patrimonio netto dell’Inps per 1,73 miliardi. In realtà, se letti con maggiore attenzione questi numeri presentano non poche criticità: nel 2015 la gestione dei dipendenti pubblici ha registrato un passivo di 28,9 miliardi di euro, a cui si sommano quelli del fondo ex Ferrovie dello Stato e quelle di altri fondi, mentre una delle principali voci in attivo risulta essere quella dei lavoratori parasubordinati che nel 2015 ha registrato un surplus di oltre 7 miliardi di euro. In tale ottica, lavoratori meno garantiti finanziano quelli maggiormente garantiti. Ci sono poi profonde differenze tra regione e regione nei tassi di copertura previdenziale che oscillano dal 106,6 del Trentino-Alto Adige, al 97,1 della Lombardia, al 95,3 del Veneto al 75% di gran parte delle regioni dell’Italia centrale fino al 51,3% delle regioni meridionali.
3) Accanto alla spesa previdenziale figura quella assistenziale, che è stata nel 2015 di 103,6 miliardi di euro, per un totale di 8,3 milioni di pensioni erogate, di cui 4 milioni circa sono state prestazioni assistenziali pure e le altre indirizzate a soggetti beneficiari di integrazioni al minimo e di maggiorazioni sociali. Negli ultimi 5 anni sono cresciute soprattutto le pensioni di invalidità civile e di accompagnamento, che per il 2015 sono state rispettivamente 934.995 e 2.045.804, così come sono aumentati anche gli assegni sociali che sono diventati 857.003. Come è noto, a differenza di quanto accade per la spesa previdenziale, nel caso di quella assistenziale non esiste un’entrata contributiva e quindi tale spesa finisce per gravare interamente sulla fiscalità generale.
4) Nasce di qui forse il principale aspetto critico della finanza pubblica italiana: per finanziare i già ricordati 444,5 miliardi di euro di spesa sociale, e in particolare i 103,6 miliardi di spesa assistenziale, sono necessari, oltre a tutti i contributi sociali per pensioni e prestazioni temporanee, quelli versati all’Inail, tutta l’Irpef, l’Irap e il 36% dell’Isos; in pratica tutte le imposte dirette con l’effetto di affidare alle sole imposte indirette la copertura del resto della spesa pubblica. Si tratta di una situazione assai problematica, resa ancora più complessa dalla geografia dell’Irpef, la principale delle imposte dirette. Su 60,8 milioni di italiani, quelli che presentano una dichiarazione dei redditi positiva per almeno un euro sono solo 30,7 milioni; ciò significa evidentemente che la metà della popolazione “non ha” redditi. Nell’ambito dei contribuenti Irpef, poi, il cerchio si stringe perché l’11,2% dichiara oltre il 52% di tutta l’Irpef. Per essere ancora più chiari, se si considera il rapporto tra il numero dei cittadini italiani sul totale dei contribuenti (40.716 unità), risulta che ogni contribuente ha in carico 1,49 cittadini. Questi numeri sono stati “peggiorati” dal bonus degli 80 euro. Se si tiene conto dell’effetto di tale bonus di cui hanno usufruito 11.291.064 contribuenti con redditi fino a 29.000 euro, il totale Irpef versato è appena di 160,976 miliardi euro e l’imposta media pagata per queste fasce di reddito si riduce da 54 euro a 40 euro per redditi fino a 7.500 euro, da 601 euro a 451 euro per quelli da 7.500 a 15.000 euro e da 1665 euro a 1.469 euro per redditi da 15.000 a 20.000 euro.
Questa noiosa successione di cifre serve però a trarre almeno un paio di constatazioni inevitabilmente solo abbozzate. Nel nostro Paese la spesa sociale, proprio per la sua entità, assolve a funzioni di redistribuzione dei redditi, spostando risorse da aree geografiche ad altre e da gruppi sociali ad altri, ma pare farlo senza un reale coerenza con i principi di giustizia e equità. Inoltre è evidente la difficile sostenibilità di un impianto di finanza pubblica dove la copertura di larga parte del welfare state grava sulle spalle di una fascia molto ridotta di contribuenti; ciò peraltro rende molto difficile anche solo ipotizzare riforme fiscali incisive che si muovano dentro il solo perimetro dell’Irpef sia pure puntando ad una maggiore progressività dei prelievi. Occorre piuttosto una dura lotta all’evasione e, forse, una strategia fiscale che miri a incidere sui “super ricchi”, magari mettendo mano finalmente a forme di imposizione patrimoniale.
Alessandro Volpi, Università di Pisa
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