Economia / Approfondimento
Tra pensioni e non autosufficienza, le sfide del welfare del futuro
Nel 2018 l’Istituto nazionale della previdenza sociale festeggia i 120 di attività. E si celebrano anche i 40 anni del Sistema sanitario nazionale. Un’occasione per ripensare il sistema di protezione sociale. A partire dal tema delle pensioni
“Vogliamo cambiare nome e chiamarci Istituto nazionale della protezione sociale”. Per festeggiare i 120 anni dell’Inps, il presidente Tito Boeri ha chiesto un regalo simbolico. E ha colto l’occasione del convegno organizzato a Roma a fine gennaio per festeggiare il traguardo per formulare di nuovo l’invito al Parlamento. “Fornire protezione sociale è oggi più che mai la missione dell’Inps. Su 440 prestazioni erogate oggi dall’Istituto -ha spiegato Boeri- quelle di natura strettamente previdenziale sono 150”. Questo non significa che la spesa per pensioni di natura previdenziale o assistenziale rappresenti solo un terzo della spesa dell’Inps. Bilancio sociale 2016 alla mano, infatti, la voce “spesa pensionistica” ammonta a 272,6 miliardi di euro e rappresenta l’88,6% dell’ammontare delle prestazioni. Boeri vuole promuovere un’immagine diversa da quella del mero istituto “erogatore di pensioni”: “Nell’ultimo anno abbiamo aggiunto alla gamma di misure gestite dall’Inps il Bonus mamma domani, l’Ape sociale e l’Ape volontaria, il beneficio per i lavoratori precoci, il nuovo contratto di prestazione occasionale e il Reddito d’inclusione”. Da “erogatore” ad amministrazione “cardine” di qualunque programma rivolto ai cittadini, anche non esclusivamente in età da pensionamento.
Questa dimensione “larga” del welfare cade non solo in occasione dei 120 anni dell’Inps ma anche dei 40 anni del Servizio sanitario nazionale. E obbliga a porsi il problema di un modello di welfare universalistico che ha davanti profondi cambiamenti sociali, sanitari, culturali, economici. “In Italia si parla sempre di pensioni e quasi mai, di non autosufficienza -ha ribadito Boeri-. Eppure è proprio da quest’ultima che verranno le sfide più impegnative legate all’invecchiamento della popolazione”. Lo sa bene Francesco Longo, professore associato presso il dipartimento di Analisi delle politiche e management pubblico all’Università Bocconi, che è tra i curatori per conto del Centro di ricerche sulla gestione dell’assistenza sanitaria e sociale (Cergas) del rapporto annuale “OASI”: Osservatorio sulle aziende e sul sistema sanitario italiano.
I dati che lo preoccupano sono forniti dall’Istat e riguardano i fabbisogni della long term care (Ltc). “La popolazione attesa Italia nel 2065 è di 53,7 milioni di persone -spiega Longo- il che ci pone tecnicamente in una situazione di ‘Paese in riduzione’. Ogni anno muoiono 615mila persone e ne nascono solo 475mila. Ci mancano 150mila nati. In più, ogni anno, 150mila giovani lasciano il Paese. Il saldo negativo sale a 300mila persone”. A questo si aggiunge l’esplosione dei non autosufficienti: “Oggi -continua Longo- ne contiamo 2,8 milioni con a disposizione appena 270mila posti letto sociosanitari residenziali pubblici o privati accreditati. E le cure domiciliari offerte dal Servizio sanitario nazionale restano di modesta intensità: 17 ore in media per paziente preso in carico che si esauriscono in 9 settimane”. Le persone in stato di bisogno sono costrette a “sconfinare”, come sintetizza Longo, in diversi sistemi di welfare, inclusi i pronto soccorso per ricoveri non dovuti.
E nel 90% dei casi le famiglie per assisterli si organizzano con un “caregiver informale”, e cioè le badanti. “Tra meno di cinquant’anni i non autosufficienti raddoppieranno, raggiungendo quota 5 milioni, e le proiezioni demografiche stimano un rapporto tra anziani e popolazione attiva che raggiungerà quota 60 a 100 nel 2065”. Saranno le pensioni a risolvere il problema? Secondo Boeri no, “né per le persone non autosufficienti né per i loro famigliari”.
L’Inps ha in mente proposte che vanno in una direzione diversa che tiene insieme previdenza e assistenza. Un’unione di fatto che è stata bollata come fonte di “fake news” dall’associazione di categoria dei manager, Federmanager. All’inizio di febbraio, a pochi giorni dal convegno dove Boeri ha rilanciato il tema della “protezione sociale”, ha acquistato intere pagine dei quotidiani nazionali annunciando “i veri dati” sulle pensioni. “Le pensioni crescono dello 0,2% mentre l’assistenza del 6%”. Come dire che una è la zavorra dell’altra. Soluzione: “Bisogna separare previdenza e assistenza”.
Il disegno dell’Inps di Boeri in tema di non autosufficienza è un altro e si articola su più piani. Da un lato rafforzando il progetto pilota “Home Care Premium” lanciato nel 2017 e che “punta a fornire un duplice sostegno alle persone con disabilità gravi”: il rimborso delle spese sostenute per l’assunzione di un assistente familiare e l’erogazione di servizi alla persona definiti a livello locale. A questo si affianca una revisione dell’indennità di accompagnamento che oggi è una misura universalistica rivolta a due milioni di “percettori” -per il 65% dei casi sopra i 75 anni- e una spesa annuale di oltre 12 miliardi di euro. In più è stata avviata quella che Boeri ha definito una “sinergia” con Invimit, società di gestione del risparmio del ministero dell’Economia, per il recupero e rifunzionalizzazione delle strutture sociali e degli immobili acquisiti in 120 anni. Le strutture in disuso dovrebbero essere ristrutturate per poi venire destinate a un progetto di residenzialità per la terza età.
“In una società che invecchia non possiamo continuare a lasciare tutto il peso della non autosufficienza parziale o totale sulle spalle di famiglie che oltretutto sono più ridotte e dal punto di vista delle parentele sempre più ‘lunghe e magre’, con più posizioni generazionali e meno persone in ciascuna di queste”, riflette Chiara Saraceno, professore ordinario di Sociologia della famiglia presso l’Università di Torino. “In questi decenni è come se non avessimo fatto i conti con la demografia”, non accorgendoci di come è cambiato quello che Saraceno definisce il “potenziale di cura” in capo a una donna tra i 40 e 50 anni negli anni Sessanta rispetto ad oggi. “La prima aveva un po’ di figli ‘sotto’, ovvero nella generazione successiva, e pochi tra genitori e suoceri al di sopra. Oggi questa piramide si è rovesciata”.
Ma ci sono altri due fattori da considerare secondo Saraceno. L’aumento dell’occupazione femminile e l’innalzamento dell’età pensionabile, “che ha tolto, anche per buoni motivi, teoriche disponibilità di cura”. Saraceno però non ha nostalgia del tempo passato. “Non è detto che in passato le persone non autosufficienti ricevessero cure appropriate solo perché c’era una figlia o una nuora amorevole -ha spiegato-. L’anziano era letteralmente messo lì e si diceva ‘non parla più, non vuole più niente’. Nessuna sollecitazione, figurarsi logopedia o ginnastica. Quindi non pensiamo che abbiamo un problema perché oggi le donne o i figli non vogliono occuparsi dei vecchi: è anche perché noi cominciamo a pensare che c’è bisogno di cure appropriate”. Come appropriata è la revisione dell’indennità di accompagnamento, che “oggi è data solo quando la non autosufficienza è valutata gravissima e senza standard uniformi”, sottolinea ancora Saraceno. E che, come ha chiarito Costanzo Ranci, professore di Sociologia economica al Politecnico di Milano, rischia di rivelarsi un mero “trasferimento monetario senza vincoli di utilizzo che alimenta il mercato irregolare della cura e lascia soli i cittadini”.
Il rapporto tra welfare e invecchiamento della popolazione non si esaurisce solo nella condizione delle persone non autosufficienti. Riguarda anche chi lavora. “Il tema della spesa pensionistica e dell’invecchiamento, fino ad oggi, è stato affrontato sostanzialmente in termini di innalzamento dell’età da pensione -riflette Saraceno-. Che ha una sua ragionevolezza. Ma si dovrebbe valutare anche come le persone interessate possano stare al lavoro. È vero che i 65enni di oggi sono i 50enni di qualche tempo fa, mediamente. Però è altrettanto vero che non si hanno più le energie, la capacità di attenzione e così via. Oltre a pensare all’età e al piano previdenza, occorrerebbe valutare come profilare correttamente le carriere lavorative di persone che devono rimanere al lavoro più a lungo.”
Questo quando il lavoro c’è. E quando manca? Tra le misure di protezione sociale a sostegno del reddito erogate dall’Inps c’è anche il Reddito di inclusione (Rei), introdotto nel 2017 per contrastare la povertà di nuclei familiari con almeno un figlio a carico e in condizioni economiche svantaggiate. Tra il primo dicembre dello scorso anno e il 2 gennaio 2018, l’Inps ha ricevuto 75.885 domande di adesione alla misura (un assegno mensile e un progetto di reinserimento sociale e lavorativo). “È la prima volta che in Italia si introduce una misura che guarda alla povertà assoluta ed è tendenzialmente universalistica, un tassello che mancava al welfare italiano”, riconosce Chiara Saraceno, che però non esita a definirla ancora “minuscola e poco finanziata”.
Boeri fu addirittura più duro lo scorso anno: “È ancora una misura basata su categorie arbitrarie: presenza in famiglia di un componente minore oppure una persona con disabilità, di una donna in gravidanza o di un disoccupato con più di 55 anni”, che “non potrà eccedere i 340 euro al mese per una persona sola quando la corrispondente soglia Istat di povertà assoluta, anche al Sud, è superiore ai 600 euro al mese”.
Elena Granaglia, che insegna Scienza delle finanze all’Università degli studi “Roma Tre”, ha recentemente ha curato un volume dedicato al reddito di base (Ediesse) con Magda Bolzoni. Riconosce la bontà del Rei ma è convinta che occorra più coraggio. “Oggi in Italia abbiamo bisogno di un reddito minimo, svincolato da meccanismi selettivi che sono complicati e creano arbitrarietà. Si dice ‘non diamo reddito ma diamo lavoro’. D’accordo, ma se il lavoro non c’è e una piena e buona occupazione latita, fino a quando non saremo in grado di garantirli allora un reddito va dato. Non è una misura passivizzante, al contrario è attivante”.
Chi già lavora invece guarda con preoccupazione al domani e alla pensione. Un tema al quale Michele Raitano -professore di Politica economica all’Università di Roma “La Sapienza” e membro del comitato scientifico dell’Osservatorio internazionale per la coesione e l’inclusione sociale (Ocis)- ha dedicato un paper intitolato proprio “Poveri da giovani, poveri da anziani? Prospettive previdenziali e vantaggi della pensione di garanzia”. A suo giudizio il timore per il quale “non si avrà mai la pensione dato che il sistema pensionistico pubblico non sarà finanziariamente sostenibile” è infondato. E alla retorica che restringe i rischi solamente ai giovani aggiunge un punto di vista più largo. Perché il rischio di “inadeguatezza” delle pensioni future è lungo e persistente anche per chi ha trascorso una vita attiva “caratterizzata da numerosi episodi sfavorevoli”. Ad esempio “storie lavorative frammentate e poco remunerative”, bassi salari, “frequenti periodi di interruzione dell’attività, non compensati da contribuzioni figurative, e aliquote di versamento ridotte”.
La regola per un’ampia fetta di lavoratori che potrebbe vivere una “vecchiaia in condizione di disagio economico, anche dopo aver trascorso un lungo periodo da attivo”. Raitano ha in mente una “pensione contributiva di garanzia” per provare a rompere il circolo vizioso che oggi vede anziani senza risorse e giovani sottopagati. “Si tratta dell’erogazione di una prestazione garantita ma di importo variabile in funzione dell’età a cui ci si pensiona -scrive- e della lunghezza della vita attiva, in modo da rendere tale erogazione coerente con le logiche del metodo contributivo e comportare esborsi immediati e troppo onerosi per il bilancio pubblico e generare disincentivi all’attività lavorativa”.
“Perché il modello di welfare cui puntare -ragiona Raitano- dovrebbe essere quello in si rafforzano le tutele ‘assicurative’ del sistema -come i sussidi di disoccupazione, gli assegni universali, i sussidi di maternità veramente onnicomprensivi, la formazione-, si estende la platea che beneficia di un reddito di base, si rafforzano misure di contrasto alla povertà affiancate a pensioni di garanzia”. Il punto di partenza, però, è che “il lavoro non è un costo ma una fonte di domanda per migliorare il benessere degli individui”.
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