Esteri / Reportage
Viaggio in Uruguay a otto anni dalla legalizzazione della cannabis
Dal 2013 lo Stato sudamericano autorizza a produrre, consumare e vendere cannabis a scopo ricreativo. La legge voluta da Pepe Mujica ha colpito il narcotraffico ma per i piccoli produttori e gli attivisti è tempo di aggiornarla
L’Uruguay è stato il primo Paese al mondo a legalizzare la produzione, l’uso e la vendita della cannabis. Nel 2013, il piccolo Stato sudamericano guidato allora dall’ex guerrigliero tupamaro Pepe Mujica, ne autorizzò il consumo per uso ricreativo attraverso la legge 19/172. “Ci colse di sorpresa, fu una risposta alla lotta al narcotraffico e ai problemi di sicurezza interna che stavamo attraversando”, ricorda Florencia Lemos, attivista antiproibizionista e componente dell’osservatorio Monitor Cannabis della facoltà di Scienze sociali dell’Università della Repubblica con sede a Montevideo. E aggiunge: “Il nostro modello funziona. Ma in questi otto anni la società è cambiata e la legge va aggiornata”, dichiara ad Altreconomia.
La legge permette l’accesso alla cannabis mediante tre canali: la coltivazione in casa, l’iscrizione a un club o l’acquisto in farmacia. Ci sono circa 60mila consumatori, tra cittadini uruguaiani e residenti, il 2,5% della popolazione adulta, secondo i dati dell’IRCCA-Instituto de Regulación y Control de Cannabis, di marzo 2021. Ciascuno deve registrarsi presso il ministero della Salute e scegliere, in via esclusiva, uno dei tre canali di approvvigionamento. Chi sceglie la farmacia, può comprare 10 grammi a settimana fino a un massimo di 40 al mese. Al banco, tra aspirine e collutori, si trovano bustine da cinque grammi di cannabis, senza il marchio della ditta produttrice, per 6,5 euro al pezzo. La produzione è garantita da aziende autorizzate dallo Stato che fornisce i terreni ed esercita la vigilanza: “Ci sono solo cinque aziende, a capitale misto pubblico-privato, le licenze sono costose, non è consentito fare pubblicità e questo tiene lontani i piccoli produttori”, spiega Lemos.
“Nei primi quattro anni di applicazione delle legge, il narcotraffico si è prosciugato perdendo 22 milioni di dollari all’anno” – Florencia Lemos
Nei club, composti da 15 fino a 45 soci, si possono coltivare al massimo 99 piante “e così non si possono fare economie di scala. Inoltre per proteggerci dai frequenti furti, dobbiamo sostenere costi elevati per la sicurezza, per telecamere e porte d’acciaio, neanche fossimo narcos. Tutto questo incide molto sul prezzo finale”, continua Lemos che è componente di un club a Montevideo saccheggiato a fine 2020. Ma nonostante il prezzo possa arrivare fino al triplo di quello della farmacia, le adesioni ai club crescono. “Siamo sopravvissuti alla concorrenza delle farmacie, attive dal 2017. Riforniamo un altro tipo di clientela, disposta a spendere un po’ di più per accedere a varietà diverse da quelle industriali”, spiega Majo Miles, trentenne, presidente della Federación de Clubes Cannábicos del Uruguay (FeCCU).
Chi si registra per la coltivazione domestica può piantare al massimo sei piante per un totale di 480 grammi per ogni raccolto. “Gli 11mila coltivatori domestici? È un dato sottostimato, non ci sono incentivi per registrarsi e il controllo è molto difficile”, confessa Lemos.
“Prima qui si fumava il prensado paraguayo, una porqueria. Ora si fuma cannabis di buona qualità e il mercato illegale è quasi scomparso. Inoltre nei primi quattro anni di applicazione della legge, tra il 2014 e il 2018, il narcotraffico si è prosciugato, perdendo 22 milioni di dollari all’anno”, spiega Lemos, attivista di “Planta tu Planta”, parte del movimento pro-legalizzazione negli anni 2000.
Lemos segnala che in Uruguay il consumo di marijuana è depenalizzato già da metà anni Settanta, un unicum per l’America Latina nell’epoca delle dittature militari. “C’era un vuoto giuridico: avevano vietato la coltivazione e la vendita ma non il consumo. Con il ritorno alla democrazia, paradossalmente, aumentò la repressione e lo stigma sociale contro chi consumava marijuana”, racconta. Oggi è scomparsa la demonizzazione: nel 2018 una persona su tre dichiarava di aver fumato marijuana almeno una volta nella vita, nel 2000 era appena il 5% della popolazione. Sempre secondo i dati di Monitor Cannabis, il 10% della popolazione adulta consuma cannabis almeno una volta l’anno.
“Crediamo che, in un Paese con molta terra coltivabile come il nostro, ci sia potenziale per fare crescere l’economia della cannabis” – Majo Miles
Per le strade di Montevideo all’odore della carne degli asado si mescola quello della marijuana “che è entrata nella vita quotidiana, con il nipote che dice alla nonna ‘annaffia la pianta mentre non ci sono’, con chi la fuma contro l’artrite o il glaucoma. E si è democratizzato il consumo”, racconta Lemos. Prima della legge 19/172, il consumatore tipo era un ventenne di Montevideo, di reddito medio e con un buon livello di istruzione mentre oggi “sono aumentate le donne, i consumatori over-55 e quelli che vivono all’interno del Paese”, prosegue riferendosi alla geografia del paisito -come gli abitanti chiamano affettuosamente l’Uruguay- con una capitale dove si concentrano metà dei 3,4 milioni di abitanti e un interno in gran parte disabitato.
I dati mostrano che il “consumo problematico”, l’abuso e la dipendenza secondo la definizione della Organizzazione mondiale della sanità (Oms), è stabile nel tempo, riguarda il 16% dei consumatori. E i ricoveri e i casi che richiedono un trattamento medico per cannabis sono appena l’1,2% di quelli legati alle droghe (Monitor Cannabis, 2018). Gli ospedali si riempiono invece di giovanissimi che consumano cocaina e “pasta base”, scarti di cocaina, fumati in pipe o antenne di televisione recuperate per strade, il cui consumo è in crescita e rafforza le reti del narcotraffico.
60mila sono i consumatori, tra cittadini e residenti, di cannabis in Uruguay
Tuttavia, i problemi non mancano. Il principale è fronteggiare una domanda in crescita con un’offerta bloccata da mille colli di bottiglia. “Secondo le nostre stime, si consumano quaranta tonnellate di cannabis ogni anno, mentre ciascuna delle cinque imprese produce due tonnellate. Quindi, tra i clienti delle farmacie -il 72% del totale dei consumatori- c’è sempre chi resta a mani vuote”, spiega Lemos. “E il prezzo è fissato dallo Stato”, segnala specificando che “non si tratta semplicemente di liberalizzare il prezzo come negli Stati Uniti” ma permettere l’accesso anche ai piccoli produttori, oggi tenuti lontani dagli alti costi delle licenze statali.
Vi è poi chi si lamenta del registro dei consumatori, lo considera una violazione della privacy ma Majo Miles non è d’accordo: “È una tutela per i consumatori, se mi ferma la polizia posso dimostrare da dove viene l’erba che fumo”.
La vendita di cannabis è però vietata agli stranieri. “Non vogliamo il turismo della marijuana”, disse Mujica presentando la legge nel 2013. Ma la realtà è ben diversa, un turista può facilmente comprare marijuana nel mercato grigio alimentato in gran parte da chi coltiva in casa e produce un po’ di più di quel che dichiara. Quello del consumo per stranieri è un “problema geopolitico, schiacciati come siamo tra due giganti, Brasile e Argentina, abbiamo dovuto fare delle concessioni per difendere la nostra sovranità”, spiega Lemos.
Con la recente scelta dell’Onu -tramite la sua commissione per gli stupefacenti- di eliminare la cannabis a scopo medico dalla lista delle droghe più pericolose, si è riattivato il dibattito sulla legalizzazione. Sempre più Paesi ne consentono l’uso terapeutico, alcuni anche ricreativo, l’ultimo dei quali è lo Stato di New York da marzo 2021. In America Latina il consumo ricreativo non è autorizzato, con qualche eccezione: al caso uruguayano si sommano alcuni Stati messicani, mentre Cile e Colombia ne hanno depenalizzato il consumo. Le due attiviste pensano che anche il paisito abbia qualcosa da mostrare al mondo. “Il nostro modello funziona”, concordano Lemos e Miles: è nata un’economia locale legata alla produzione, non è finito tutto in mano alle grandi multinazionali, come avviene abitualmente nel caso della legalizzazione di alcol e tabacco. Non c’è stato un impazzimento collettivo e il narcotraffico è scomparso.
“Ma la legge va rinnovata”, sostiene Miles che elenca le priorità dei club: “All’inizio erano pensati come un gruppo di amici ma la realtà è andata in un’altra direzione. Chiediamo di poter raddoppiare il numero dei soci per aumentare la produzione e ridurre i prezzi. Così i furti che stiamo subendo scomparirebbero, la marijuana smetterebbe di essere un bene scarso. Oggi inoltre non paghiamo le tasse, siamo associazioni senza fine di lucro. Se potessimo aumentare la produzione e vendere parte del raccolto, potremmo pagarle. Crediamo che, in un Paese con molta terra coltivabile come il nostro, ci sia un potenziale per far crescere l’economia della cannabis, anche per la ricerca scientifica”. Di recente però la coltivazione della cannabis per uso medico è stata vietata sia nei club sia a casa:
“Abbiamo perso un’occasione di avanzare nella ricerca della cannabis per uso terapeutico”, si lamenta Miles. Lemos rilancia: “Il cammino graduale verso la legalizzazione non funziona: qui non si persegue chi fuma marijuana ma aumentano le detenzioni di piccoli spacciatori di altre sostanze. E il narcotraffico prospera. Il proibizionismo va superato in toto”.
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