Vediamo quanto vale il popolo dell’equo – Ae 62
Numero 62, giugno 2005Per la prima volta diminuisce la spesa media nelle Botteghe del mondo: tengono i prodotti alimentari, soffrono un po’ quelli di artigianato. Tutti i numeri alla vigilia della fiera nazionale di Parma La crisi economica soffia sul collo…
Numero 62, giugno 2005
Per la prima volta diminuisce la spesa media nelle Botteghe
del mondo: tengono i prodotti alimentari, soffrono un po’ quelli di artigianato. Tutti i numeri alla vigilia della fiera nazionale di Parma
La crisi economica soffia sul collo del commercio equo. Il calo dei consumi si è fatto sentire anche nelle botteghe del mondo. Il dato non è ancora preoccupante, confermano gli addetti ai lavori, ma significativo per un settore finora sempre con il vento in poppa e in forte crescita. Il 2004, per la prima volta in modo diffuso, ha portato il segno “meno” accanto ai dati di vendita dei prodotti del fair trade, anche a Natale, di solito il periodo più intenso per questo settore. E se in molti casi il numero di clienti non è diminuito, ha subito però una flessione lo “scontrino medio”, segno evidente che le persone hanno più difficoltà a spendere. Altra tendenza è il calo delle vendite dei prodotti di artigiananto a favore degli alimentari, considerati come più “utili” e meno voluttuari. Insomma, più cesti con caffè, miele, anacardi, biscotti e meno gong tibetani.
La tendenza è scritta nei bilanci delle botteghe del mondo, al Nord come al Sud. La milanese Chico Mendes, per esempio, tra le più grandi in Italia: aumento di fatturato complessivo, dai 2,9 milioni di euro del 2003 agli oltre 3,2 del 2004, ma grazie all’apertura di una nuova bottega a fine 2003 e all’incremento degli altri canali (dalle vendite ai gruppi ai distributori automatici di caffè e snack). Considerando le nove botteghe “storiche”, invece, tutte hanno registrato delle diminuzioni, da un minimo dell’1,23% a un massimo del 20,34%.
“Il 2004 in effetti ha messo in evidenza come la crescita delle botteghe non sia un fenomeno scontato e automatico -ammettono a Chico Mendes- e come la recessione dei consumi abbia cominciato a influenzare anche il commercio equo”.
Ulteriore conferma arriva dal “Banco di Garabombo”, il tradizionale tendone natalizio che Chico Mendes organizza con Radio Popolare e la cooperativa Librerie in piazza: all’ultima edizione ha incassato quasi un milione di euro, ma con un diminuzione del 6,5% rispetto all’anno precedente. A soffrirne di più i prodotti di artigianato (meno 8%), mentre hanno tenuto di più alimentari e libri. Diminuiti gli scontrini in valore – dai 28 euro del 2003 ai 23,50 del 2004- ma quasi uguali in numero (37 mila contro 38 mila).
Anche Pace e Sviluppo di Treviso conferma: “I segnali del calo abbiamo iniziato a sentirli già nel 2003”: il fatturato del mese di dicembre era a 91 mila euro (erano oltre 92 mila nel 2002), ed è sceso a 86 mila nello stesso mese del 2004. E la bottega più grande, quella di Treviso, in tutto il 2004 ha perso 52 mila euro rispetto all’anno precendente, ma la situazione riguarda quasi tutti i punti vendita, anche se il fatturato complessivo della cooperativa è cresciuto: “Segnali di una generale difficoltà economica” -conferma il presidente Alessandro Franceschini- che ha riguardato più l’artigianato, i libri e i servizi educativi che non gli alimentari.
Anche al Centro e al Sud la crisi si fa sentire. Mondo Solidale, cooperativa marchigiana con 15 punti vendita: “Il nostro fatturato è aumentato -dice il coordinatore Paolo Chiavaroli- ma grazie all’apertura di nuovi punti vendita e il riposizionamento di uno vecchio. Considerando una situazione analoga a quella del 2003, invece, c’è stato un calo di fatturato del 2,3%. Ma a differenza di altre botteghe, lo scontrino medio è cresciuto: nella bottega con il fatturato più alto è passato da 13,9 euro a 14,6: “Sembra quindi che la difficoltà sia prodotta da un minor numero di clienti: in quella bottega, da una media di 66 scontrini al giorno siamo passati a 39”.
Così la cooperativa ‘E Pappeci, con due botteghe tra Napoli e San Giorgio a Cremano: la bottega del capoluogo, in particolare, ha incassato un meno 5,42% da un anno all’altro. Gli scontrini medi giornalieri sono rimasti gli stessi come numero (87), ma gli acquirenti, in media, hanno speso meno: 10,93 euro anziché 12,27. Il calo, qui come altrove, ha riguardato anche il periodo natalizio e l’artigianato più che gli alimentari. Buono l’incremento (+ 30%) per quanto riguarda le vendite ai gruppi (passati da una settantina a 103).
L’uscita da questa situazione generalizzata non è forse dietro l’angolo: anche il 2005 si preannuncia complicato. Molte botteghe puntano in primis sulla comunicazione, per raggiungere chi ancora non conosce il commercio equo, e poi su nuovi canali di vendita, dal “vending” (i distributori di bevande e merendine) ai negozi del biologico.
La crisi sembra per ora aver sfiorato anche alcune centrali d’importazione, come Equoland, passato da 1,9 milioni di euro nel 2003 a 1,7 nel 2004. E chi ancora cresce -o resta stabile- è comunque lontano dal boom degli scorsi anni. Per esempio Ctm Altromercato, la prima in Italia storicamente e per dimensioni, che a giugno dell’anno scorso (bilancio 2003-2004) aveva un fatturato di 34 milioni di euro contro i 31,8 dell’anno precedente e anche il fatturato di quest’anno dovrebbe essere sui 34-35 milioni. Stabile anche Equo Mercato, che dovrebbe chiudere il prossimo bilancio (giugno 2005) con una cifra non lontana da quella dello scorso anno (1,3 milioni di euro), mentre Roba dell’altro mondo ha subìto un rallentamento: dal 2002 al 2003 il fatturato era cresciuto da 647 mila euro a 794 mila, mentre nel 2004 è arrivato a 820 mila.!!pagebreak!!
Ha oltre 35 anni e vive al Nord
La donna “ideale”
Commercio equo sempre più “noto”: gli italiani che conoscono il fair trade aumentano, anche se -forse a causa della crisi economica- sono disposti a pagare meno che in passato per prodotti eticamente corretti.
I dati emergono da uno studio commissionato da Ctm altromercato a Gpf & Associati, e sono aggiornati al 2004: 11 milioni di persone dichiarano di conoscere il commercio equo, contro gli 8 milioni del 2002, anno a cui risale uno studio analogo.
L’identikit di chi -oltre a conoscerli- ha acquistato almeno una volta i prodotti equi (il 10,7% della popolazione) disegna il profilo di una donna (64%) con più di 35 anni (56%) che vive in prevalenza nel Nord Italia (68%).
E proprio questo gap di genere tra gli acquirenti è una tendenza che, sottolinea Gpf & Associati, si sta consolidando col tempo, forse anche grazie alle nuove linee di prodotti “mirati” lanciati negli ultimi anni: dalle collezioni di abiti ai cosmetici, su cui un po’ tutte le centrali stanno puntando per ampliare il catalogo.
La maggior parte dei clienti compra equo in modo sporadico, vale a dire due volte l’anno o anche meno (51,8%), il 26,6% da 3 a 10 volte l’anno, mentre lo zoccolo duro, i cosiddetti “heavy buyers” anche una o più volte al mese (21,6%); ma, in generale, una buona fetta della clientela è meno disposta di un tempo a pagare un prezzo più elevato per un prodotto fair trade.
Se nel 2002, infatti, una buona metà dichiarava di poter arrivare anche a un 10% in più pur di potersi portare a casa, per esempio, un pacchetto di caffè del Nicaragua equo, due anni dopo questa cifra è calata al 44,9%.
Rivoluzione sul fronte dei canali di vendita: diventa “maggioritaria” la grande distribuzione (Gdo), preferita di solito dagli adulti, che supera la bottega, frequentata invece dai più giovani.
Dati significativi: gli acquirenti sono aumentati in numero in entrambi i casi, ma nel 2002 comprava in bottega il 49% dei clienti, mentre nel 2004 la percentuale è scesa al 40,2. Al contrario, la Gdo è passata dal 27% al 46,9% in due anni.
Il fair trade italiano, conclude Gpf & Associati, è in una fase “matura”: ci sono ancora “margini di crescita ma l’apice della curva di notorietà è stato presumibilmente superato”.
Banane nascoste
Che fine hanno fatto le banane Altromercato? Dagli scaffali dei supermercati Esselunga (loro principale canale di vendita) sono sparite: scelta strategica della catena di supermercati -spiegano- che ha razionalizzato il numero di prodotti, eliminandone alcuni. Nel caso delle banane eque, Esselunga ha preferito puntare su “Naturama” e “Esselunga bio”: la frutta, come già da tempo, è comunque fornita da Ctm altromercato (quindi 100% fair trade) ma ora, diversamente dal passato, la cosa sarà riportata in etichetta.
Il “taglio” delle banane Altromercato non è stato indolore perché per Ctm equivale a un calo di vendite pari a oltre 14,5 tonnellate ogni settimana. Altra emorragia: le banane Naturama, finora vendute sfuse, sono disponibili soltanto confezionate (ed Esselunga ha deciso di vendere banane “convenzionali” sfuse a basso prezzo).
Risultato per Ctm: 30 tonnellate in meno a settimana. Oggi Ctm vende, in canali diversi, 100 tonnellate di banane ogni settimana.
Polo “Solidal” quasi eque
Alla Coop è arrivato il cotone equo e solidale. O quasi: a maggio l’azienda ha lanciato un nuovo prodotto della linea “Solidal”: magliette in cotone biologico. La campagna di comunicazione recita: “Coop entra nel mondo del tessile equo-solidale”.
In effetti i coltivatori (indiani) di cotone hanno ricevuto un prezzo superiore a quello di mercato, come verificato anche da Transfair Italia, ma il produttore delle magliette non è nei registri Flo e il prodotto non può essere ufficialmente certificato come fair trade. Si trattava comunque di un test: le 60 mila polo prodotte sono piaciute e sono già esaurite. !!pagebreak!!
Bambini alleati dei bambini
Commercio equo contro lo sfruttamento del lavoro dei bambini: è la nuova campagna di News, il coordinamento europeo delle botteghe del mondo (vedi a fianco).
Gli obiettivi: informare i bambini tra gli 8 ed i 12 anni del legame tra i prodotti (come cioccolato e palloni) e le condizioni in cui sono stati realizzati e fare pressione sulle amministrazioni pubbliche europee perché promuovano il commercio equo, ne utilizzino i prodotti e richiedano ai propri fornitori che le merci “siano prodotte senza sfruttare il lavoro dei bambini”.
Info: www.children.assobdm.it
Un marchio per distinguersi
Fto mark protagonista a Quito, in Ecuador. A maggio, l’ottava conferenza internazionale di Ifat (il più grande network mondiale di organizzazioni del commercio equo) è stata l’occasione per fare il punto sul progetto lanciato in occasione del World Social Forum di Mumbai nel 2004 e per pianificare i passi futuri. È stata ribadita la necessità di un marchio che distingua le organizzazioni che fanno commercio equo da tutte le iniziative più o meno “responsabili” che stanno fiorendo, lanciate da diversi soggetti, multinazionali comprese.
L’Fto mark sembra un percorso destinato a integrare -in Italia- quello già intrapreso da Agices, l’Associazione nazionale delle organizzazioni eque e solidali, che lavora tra l’altro per un riconoscimento istituzionale del movimento. Un quesito in primo piano: attribuire il marchio solo alle organizzazioni o anche ai prodotti come una sorta di Sa8000 del commercio equo? Prosegue intanto il Fair Trade Global Journey (manifestazioni in tutti i Paesi del mondo per far conoscere l’Fto mark) che l’anno prossimo toccherà l’Italia. Info: www.ifat.org
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Frontiere globali, di Tonino PErna (versione integrale)
La caduta del potere d’acquisto delle famiglie italiane ha prodotto , nell’ultimo anno, una generale contrazione dei consumi che avuto, fra l’altro ,anche un effetto negativo sulle botteghe del commercio equo e solidale. Dopo un lungo periodo di espansione il fair trade italiano conosce, per la prima volta, una fase di stagnazione. E’ un passaggio, a nostro avviso, non congiunturale . La riduzione dei salari reali, la precarizzazione del lavoro, sono ormai diventati elementi strutturali di questa fase storica che attraversa l’U.E., ed ancora più il nostro paese, nella nuova divisione internazionale del lavoro che si va costituendo. E’ un momento che richiede un’attenta riflessione e la scelta di una strategia appropriata.
Per fuggire dalle facili generalizzazioni dobbiamo dire innanzitutto che la necessità di risparmiare e ridurre i consumi non si spalma su tutto il paniere come un formaggino su una fetta biscottata. La scelta su “quali consumi” tagliare o ridurre, su quali beni e servizi guardare più il prezzo che la qualità è , innanzitutto, una scelta culturale. Una recente indagine Censis-Confcommercio, che ha riguardato quattro paesi europei oltre il nostro, mostra come sei italiani su dieci abbiano risparmiato soprattutto sulle spese alimentari. Di contro nella stessa indagine risulta che il 43% degli intervistati acquista normalmente frutta biologica, il 41% compra prodotti enogastronomici tipici e di qualità, il 31% acquista prodotti cosmetici naturali, il 21% ama nutrirsi con cibi etnici. Da questi primi dati ne viene fuori una Italia decisamente divisa tra chi è schiavo del prezzo e tende a risparmiare a detrimento della salute e di altri valori e chi , malgrado la crisi, sceglie qualità, ambiente ed eticità. L’indagine è troppo generica e merita ulteriore ricerche ed approfondimenti per capire se la “prima Italia” è composta da lavoratori precari, a basso reddito, poveri, e la “seconda Italia” che corrisponde al 30/40% della popolazione sia costituita essenzialmente da ceti medio-alti.
Ho dei dubbi che le indagini condotte con un piccolo campione , sia pure corretto metodologicamente , siano in grado di darci delle risposte reali sui mutamenti culturali in atto tra i consumatori italiani . Non è solo il reddito, infatti, che determina le scelte dei consumatori, ma anche la visione del mondo, il livello culturale, la coscienza ambientale e sociale che sta maturando in questi anni.
Non è detto, pertanto, che il commercio equo debba necessariamente subire una frenata o una recessione per via della perdita del potere d’acquisto della maggioranza degli italiani. Le strategie familiari o individuali di risparmio potrebbero essere concentrate su alcuni beni e servizi diversi dagli acquisti nelle botteghe del mondo. Anzi, questa fase di recessione economica potrebbe funzionare da cartina di tornasole per scoprire quanto sia profonda e sentita la “scelta etica “ che porta milioni di persone a entrare nelle botteghe del mondo. Quello che mi sembra più rilevante è il mutamento dello scenario mondiale ed il modo con cui i media ci fanno percepire questo cambiamento.
Dai media, infatti, la crisi economica italiana viene attribuita alla concorrenza asiatica sleale , che falsifica le nostre griffe , non rispetta le leggi sull’ambiente e quelle sui diritti dei lavoratori. Massimo imputato è la Cina oramai al centro dell’attenzione e delle paure che alimentano il sistema produttivo italiano. Solo pochi anni fa tutti gli esperti economici vedevano con favore questa entrata del colosso cinese nel mercato mondiale , un esempio di come la globalizzazione dei mercati ed il libero scambio avvantaggi tutti gli attori. Che cosa è successo adesso per vedere crescere questo disagio che ha portato alcune forze politiche (come la Lega nord) a chiedere la reintroduzione dei dazi doganali, proprio da parte di chi ha sempre predicato il libero scambio e la lotta all’assistenzialismo statale o all’ingerenza dello stato nell’economia ?
La risposta non è semplice. Diciamo innanzitutto che la teoria economica neoliberista trae spunto dal noto teorema di David Ricardo sui vantaggi comparati nello scambio internazionale: è uno spreco di risorse –scriveva Ricardo- per l’Inghilterra produrre vino quanto per il Portogallo produrre stoffe. Grazie alla specializzazione, che aumenta la produttività marginale, l’Inghilterra producendo più stoffa potrà acquistare a minor costo il vino dal Portogallo anziché produrlo a costi superiori. E viceversa. Se l’esempio di Ricardo tiene per due prodotti e nazioni con costi del lavoro non troppo distanti, la questione si fa più complessa quando si tratta di una nazione , la Cina, con un costo del lavoro per unità di prodotto industriale che è 1/8 di quello europeo. Teoricamente l’UE dovrebbe specializzarsi in prodotti ad alto valore aggiunto e tecnologicamente avanzati e la Cina dovrebbe specializzarsi in prodotti industriali a tecnologia matura. Ma, la storia ha voluto che il modello di capitalismo statale che si è configurato in questi anni in Cina sta portando questo paese a coprire una vasta gamma di prodotti industriali, compresi alcuni beni ad alta tecnologia. Per noi italiani resterebbe comunque disponibile il settore “beni di lusso” su cui , grazie al designer , ci siamo specializzati ed imposti al mondo negli ultimi decenni. Ma, in questo settore sono state spesso le nostre imprese che –dalle cravatte nel Bangladesh ai capi d’abbigliamento a Shangai – hanno fatto ricorso alle delocalizzazione per abbassare i costi di produzione lasciando invariati i prezzi (e quindi aumentando decisamente i margini di profitto). Ma c’è di più. Le imprese cinesi hanno imparato velocemente a falsificare anche i nostri prodotti firmati e stanno inondando i nostri mercati, con grande soddisfazione dei consumatori che trovano articoli di lusso a prezzi stracciati. Ma,vale la pena ricordarlo, la falsificazione non è una diavoleria cinese , bensì una strategia di mercato inventata cinque secoli fa dai mercanti inglesi e olandesi . !!pagebreak!!
L’emarginazione/declino dell’economia della Serenissima nel XVI° secolo costituisce un esempio , tra gli altri, del peso giocato dalla concorrenza sleale ed in particolare dalla falsificazione :
“ Gli osservatori veneziani a Costantinopoli scrivevano con sgomento che le lane inglesi e olandesi stavano cacciando quelle veneziane dal mercato . Il peggio era che i nuovi venuti vendevano prodotti scadenti a una frazione del prezzo dei fini e costosi tessuti italiani , imitando sfrontatamente fogge e colori veneziani. A volte mercanti di pochi scrupoli falsificavano il marchio di qualità del governo veneziano , riservato ai tessuti pregiati della città di San Marco. Renitente a ridurre costi e qualità per fare fronte alla nuova concorrenza dei prezzi, Venezia perse il suo predominio nel commercio con i turchi. Nel 1630 la quota veneziana nell’emporio di Costantinopoli si era ridotta ad un quarto del totale, e l’Inghilterra era diventata la nuova capofila” (cfr. S.B. Clough e R.T. Rapp, Storia Economica d’Europa,pag. 169, Ed. Riuniti, 1989) .
Normalmente questi fatti vengono letti in una chiave che potremmo chiamare “progressista” : la frode, la disonestà , la concorrenza sleale , sono caratteristiche del “capitalismo nascente”, della cosiddetta “accumulazione originaria” (Marx), dello “spirito d’avventura “ (Sombart) , del capitalismo “immaturo” (Simmel) , ecc. ecc. Ora, se è vero che lo sviluppo del capitalismo ha prodotto una riduzione della violenza , dell’arbitrio, della frode, delle falsificazioni, ciò è avvenuto essenzialmente nel mercato interno : è qui che è cresciuta la fiducia , il rispetto dei contratti , la definizione ed il contro delle regole dello scambio. Nel campo del commercio internazionale ed , in particolare, del rapporto nord-sud , la violenza , l’inganno, il sopruso ed anche l’uso della violenza ha continuato, in forme diverse e sofisticate, ad imperversare.
Come facciamo a stupirci se oggi ci viene restituito pan per focaccia, se grandi paesi come Cina e India usano tutti i mezzi a disposizione per crescere economicamente ed invadere i nostri mercati ?
La storia si ripete e riproduce i rancori di sempre. !!pagebreak!!
Le alternative possibili
L’effetto Cina, sta producendo un impatto culturale pesante sul nostro modo di percepire il mondo ed in particolare sulla solidarietà internazionale, Finché si tratta di aiutare un paese povero, una parte della popolazione occidentale è ben disposta a farlo. E per molti il commercio equo è uno strumento valido ed efficace di cooperazione internazionale . Ma, quando lo scenario cambia drasticamente , quando non si tratta più di aiutare i poveri del sud , ma si ha paura di quella parte del sud del mondo che produce merci a basso costo che fanno chiudere le nostre fabbriche e mettono in crisi il nostro tenore di vita, allora la solidarietà si spegne , il capitalismo compassionevole mette da parte i buoni sentimenti e la beneficenza pelosa e diventa aggressivo. Gli effetti del capitalismo globalizzato non sono più oggetto di studio di pochi esperti , ma diventano pane quotidiano per la gran parte delle popolazioni che appartengono al nord , alla società dei consumi di massa .
Nei prossimi anni, questo impatto avrà serie ripercussioni sulla nostra cultura, sulle nostre sensibilità, sulla nostra visione del mondo e del futuro. Si aprono scenari inquietanti in cui è facile prevedere che improvvisati demagoghi avranno buon gioco e raccatteranno facili consensi facendo leva sugli istinti primordiali che scattano ogni volta che una popolazione si sente minacciata da altre. E’ già successo rispetto agli extracomunitari , ma con una contraddizione di fondo: da una parte della popolazione del nord sono stati visti come un pericolo per la loro identità, ma dalla gran parte sono stati accettati, sia pure a malincuore, perché sono utili ed indispensabili rispetto ai meccanismi dell’accumulazione del capitale e della riproduzione sociale.
E’ urgente pertanto trovare delle alternative credibili e praticabili per evitare derive xenofobe e rigurgiti nazionalisti. Ed è proprio il Fair Trade , questo grande movimento che si è esteso da una parte all’altra della terra che può dare, fra gli altri, un grande contributo. Lo potrà fare se uscirà dalle nicchie dove spesso si rifugia per valorizzare e moltiplicare il suo obiettivo più importante: la lotta e l’impegno per cambiare le regole del commercio internazionale, per arrivare ad avere un commercio meno selvaggio e più equo. E questo si traduce oggi , nel caso della Cina, in un impegno ambizioso per sensibilizzare governi ed opinione pubblica ,a livello europeo, che le clausole sociali ed ambientali vanno applicate e controllate seriamente, che la tracciabilità delle merci è un diritto inalienabile dei consumatori, che infine, la lotta per i diritti dei lavoratori , in tutti i paesi del mondo, è una necessità se non vogliamo arrivare ad una pericolosissima guerra commerciale , preludio- come negli anni ’30 – di una spaventosa e catastrofica guerra globale.
Questa battaglia, come ha scritto lucidamente Luciano Gallino su “La Repubblica” dell’11 marzo –Sfidare la Cina esportando diritti – deve partire dalle nostre imprese occidentali che devono essere le prime, nelle aree dove hanno delocalizzato la produzione, a rispettare precise regole che vanno dall’esclusione del lavoro dei minori di 15 anni, al salario minimo , al versamento degli oneri sociali, al rispetto della sostenibilità ambientale, ecc. Ed ancora : bisogna ottenere il diritto al controllo su queste catene lunghe di merci . Molte volte prodotti fabbricati in Cina o in Romania , per fare un esempio, arrivano ai consumatori europei come made in Italy o in Germany , quando in questi paesi viene al più effettuato l’ultimo del ciclo del prodotto. Più spesso , nei prodotti per la casa o nell’abbigliamento viene semplicemente appiccicata l’etichetta del made in Italy , con evidente truffa del consumatore e grandi guadagni per i nostri importatori. A proposito se è vero come è vero che un giaccone da uomo parte dalla Cina al prezzo da 5,19 euro, abiti interi da donna a 5,39 euro, scarpe da tennis a 1,81 euro, camice da uomo a 3,02 euro,cappotto da donna a 8,7 euro ecc. come mai i prezzi di questi prodotti sono continuati a salire negli ultimi anni ? Quanto ci guadagnano gli speculatori/importatori o finti produttori locali ?
Il movimento dei consumatori critici, le campagne di boicottaggio, il Fair Trade hanno un nuovo ruolo da svolgere che oggi è diventato indispensabile anche per noi, per immaginare e costruire un futuro vivibile nella nostra Europa.