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Uomo forte o capo clan? Le figure aliene plasmate dal sovranismo

Una parte dei media nazionali rilancia la presunta fame di autoritarismo della cittadinanza. Si tratta di uno scenario dai tratti insoliti e un po’ raffazzonati alla luce del debole processo democratico italiano, dove in realtà sono a lungo mancati gli “uomini forti”. L’analisi di Alessandro Volpi

© Christian Lambert - Unsplash

In una parte dell’opinione pubblica italiana pare farsi strada il desiderio dell’uomo forte che, del resto, sembra molto legato al messaggio politico del sovranismo per cui è indispensabile la retorica del “capo”.
Certo, hanno favorito la popolarità di una simile soluzione il dilagare dell’antipolitica e il sovranismo abbinati ad un eccessivo parlamentarismo trasformista e ad una scarsa concretezza delle forme della nostra democrazia liberale. Tuttavia questa fame di autoritarismo presenta tratti insoliti per la storia italiana dove sono a lungo mancati gli “uomini forti”, personaggi ben diversi dai leader sempre e comunque inseriti solidamente nella vita delle Camere.

In alcuni momenti, l’aspirazione diffusa ad avere un capo dotato di pieni poteri ha serpeggiato, ma tale passione quasi mai si è tradotta in realtà. Sono stati pochi infatti gli uomini forti nell’ottocento. In primo luogo, l’Italia ha avuto una monarchia debole; i Savoia non hanno mostrato il prestigio e la capacità di condizionare gli eventi paragonabili ad altre dinastie. Carlo Alberto, Umberto I, Vittorio Emanuele III sono stati sovrani, sia pur in modo diverso, dai caratteri incolori, spesso travolti dagli eventi e talvolta responsabili di scelte colpevoli, prese sulla base della paura piuttosto che della consapevole convinzione. Forse l’unico re forte fu Vittorio Emanuele II che subì però la decisiva influenza del conte di Cavour, troppo convinto, quest’ultimo, della centralità del Parlamento per essere interpretato in chiave autoritaria.
Gli anni della Destra storica sono passati senza uomini forti; si trattava, in larghissima prevalenza, di un gruppo, di una “consorteria”, per usare la definizione coniata nei loro confronti, mentre nei riguardi di Agostino Depretis e della Sinistra storica il termine più adoperato fu quello del “trasformismo” per indicare l’assoluta centralità della prassi parlamentare. Forse il primo vero “uomo forte” fu Francesco Crispi, feroce critico dei tempi morti delle Camere e solerte interprete della repressione poliziesca, ma la sua carriera fu breve e soprattutto cancellata dal tragico disastro di Adua nel 1896. Dopo la crisi di fine secolo, mal gestita da figure di secondo piano, si approdò alla fase giolittiana dominata dalla continua ricerca di maggioranze parlamentari, guidate da un leader sapiente e spregiudicato e al contempo privo del carisma e del cipiglio del capo. Nella convulsa fase successiva alla prima guerra mondiale, sul finire del 1922, iniziava la carriera politica di Benito Mussolini, alla testa fino al 1924 di un governo di coalizione, formato per volontà del re e per le debolezze delle forze –popolari e socialisti– che avevano vinto le elezioni del 1921.
Varate le leggi “fascistissime” e trasformato in profondità lo Stato in senso autoritario, il “duce” diventava un dittatore senza, in realtà, essere davvero un uomo forte, costretto a fare i conti con l’enorme peso della Chiesa di Pio XI e persino con la monarchia dei Savoia, capace suo malgrado di conservare un largo consenso popolare, rivolto all’istituto della Corona più che alle teste coronate.

Nel secondo dopoguerra i veri soggetti forti sono stati i grandi partiti di massa e la loro straordinaria organizzazione, collocati dall’ingegneria costituzionale nelle procedure parlamentari, che venivano blindate dal metodo proporzionale. Palmiro Togliatti fu l’artefice del “partito nuovo” dove il leader era la guida, a lungo indiscussa, che non poteva ambire a governare per i condizionamenti della guerra fredda, mentre Alcide De Gasperi aveva una visione della politica, e dell’esistenza, in cui non poteva aver spazio neppure la mera idea dell’uomo forte. Moro e Berlinguer sono stati leader democratici, convinti della necessità di rafforzare la debole tradizione democratica italiana con una grande operazione culturale come il compromesso storico. Craxi si è presentato, come del resto Andreotti, con i segni ben evidenti di un proporzionalismo sempre molto scivoloso dove si partiva da posizioni di maggioranza assai relative o persino di minoranza per mettere in piedi complicate formule di governo. Berlusconi ha fondato la sua immagine su quella dell’imprenditore che si è fatto da sé, “proprietario” del partito-azienda, che solo raramente ha strizzato l’occhio alla retorica dell’autocrate.

Dunque, anche da una lettura assai epidermica, pare emergere che un desiderio così pronunciato dell’uomo forte non si può ritenere un elemento tipico delle vicende nazionali ed è chiaramente riconducibile invece, come accennato alla crisi della democrazia liberale nostrana a cui si cerca un’alternativa, magari reperendola all’estero. Più che nella lunga storia nazionale, la voglia di autoritarismo sembra così avere radici molto recenti e soprattutto sembra mutuare i propri modelli dai nuovi autocrati emersi in giro per il mondo. Il sovranismo, come accennato in apertura, ha plasmato figure aliene ad ogni forma di equilibrio dei poteri, ad ogni atteggiamento riflessivo, a qualsiasi sia pur minima disponibilità al confronto civile, persino a qualsiasi senso della misura nelle acconciature e nell’abbigliamento; dei veri e propri “capi” che riproducono con modalità contemporanee rituali e costumi precedenti all’età dell’illuminismo. I nuovi uomini forti sono molto simili ai capi clan e ai capi tribù che diffondono il loro grido di battaglia attraverso milioni di tweet e di post. A forza di gridare prima gli italiani si è fatta strada la paradossale convinzione che il migliore capo del popolo italiano debba essere individuato scopiazzando da modelli stranieri, decisamente molto raffazzonati.

Università di Pisa

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