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Crisi climatica / Opinioni

Una transizione equa e rigorosa non può accontentarsi di deroghe e ingiustizie

© Markus Spiske - Unsplash

“Non sono un negazionista, né un ritardista e voglio anche io una transizione energetica”, premette Paolo Pileri nel rispondere all’intervento di Stefano Caserini pubblicato a ottobre su questa rivista. “Chiedo però di pianificare un passaggio alle rinnovabili senza predare le terre agricole o che potrebbero tornare ad esserlo dopo anni di abbandono colturale”. Perché in Italia dobbiamo rinunciare a “fare meglio”?

L’articolo di Stefano Caserini del primo ottobre su Altreconomia chiama in causa me e quella parte del dibattito che chiede una transizione energetica con una pianificazione rigorosa ed equa.

Per pianificazione rigorosa, ricordiamolo, intendiamo quell’insieme di politiche e azioni in grado di aumentare la produzione di energia rinnovabile senza sacrificare pezzi di natura, agricoltura e paesaggio e che sia al tempo stesso in grado di ridurre drasticamente tutte quelle azioni umane che generano emissione di anidride carbonica o che sopprimono assorbitori naturali di carbonio, come suolo e foreste.

Per equa intendiamo una transizione energetica che rispetti le persone, le comunità, gli animali e le piante e che non si approfitti della fragilità di alcune situazioni sociali per imporre le proprie logiche e occupare terre e spazi, anche se con la bandiera della sostenibilità.

Proporre azioni di mitigazione climatica è giusto, ma trascurare le legittime richieste di equità e di benessere delle comunità locali in favore, spesso, di soluzioni a vantaggio di grandi interessi e robusti investitori poco inclini a considerare ciò che non è il loro profitto, significa non approdare a proposte convincenti e mantenere sempre alto il livello del conflitto sociale che, in fin dei conti, non farà che rallentare la transizione energetica stessa.  

Per essere chiari: non sono un negazionista, né un ritardista e voglio anche io una transizione energetica. Chiedo però di pianificare un passaggio alle rinnovabili senza predare le terre agricole o che potrebbero tornare ad esserlo dopo anni di abbandono colturale. Non mi si attribuiscano altre interpretazioni, per favore. Quel che faccio notare da anni è semplice.  

Abbiamo ettari ed ettari di tetti su decine di migliaia di capannoni, di centri commerciali. Abbiamo coperture di stadi, arene e palazzetti dello sport. Abbiamo stazioni ferroviarie e scali merci. Abbiamo parcheggi asfaltatissimi e in ogni dove che potrebbero essere coperti con un “parcheggiovoltaico”.

Ma tutto questo non soddisfa chi vuole l’accelerazione alle rinnovabili a tutti i costi lasciando spazio a una sregolata transizione energetica, sebbene venga presentata come buona e necessaria, minima negli impatti al suolo e nella perdita di superfici agricole e del loro potenziale alimentare ed ecologico. Un’accelerazione accecante e amica di pericolosi processi di deroga, pratica disgustosa ma sempre diffusa in Italia. 

Una deroga, ad esempio, è quella con cui il Governo Draghi ha depotenziato le valutazioni ambientali per gli impianti fotovoltaici ed eolici. Deroga è la legittimazione, di fatto, a fare a meno dei pareri dei Comuni e delle comunità locali, venendo meno a quei principi basici di democrazia e partecipazione popolare.  

Perché dovremmo applaudire a un decreto sulle aree idonee del governo centrale che ha la presunzione di decidere quali suoli coprire con pannelli solari senza che sia fatta una minima analisi chimico-fisica dei suoli stessi? Perché è corretto, sempre per il decreto del governo, che le aree destinate a impianti produttivi nei piani urbanistici possano essere automaticamente idonee? Sono queste buone indicazioni che vanno nella direzione della sostenibilità?  

Tutto questo non ha nulla a che fare con quella pianificazione energetica rigorosa ben spiegata da Giuseppe Barbera in un libro di Gianni Silvestrini (titolo eloquente: Che cosa è l’energia rinnovabile oggi, 2022). Secondo Barbera la transizione energetica richiede coraggio e rigore, e un’attentissima pianificazione ecologico-paesaggistica. Solo così si evitano danni a suoli e paesaggio e molte ingiustizie sociali. Ma di quella pianificazione rigorosa i “fan della transizione energetica” non parlano più: sparita dai loro radar.  

Fermare le emissioni è urgente, vero, ma questo -chiedo a loro- giustifica leggerezze, ingiustizie e impatti a natura, suoli e paesaggi? Giustifica il fatto che non sappiamo chi e con quali competenze e sensibilità ecologiche stia definendo le aree idonee nelle venti Regioni italiane e non vi è alcuna trasparenza in questo delicatissimo processo che cambierà il volto di interi paesaggi? Giustifica il fatto che non dobbiamo domandarci che fine faremo quando tutta la produzione elettrica sarà in mano a decine di società private, a fondi finanziari e a investitori stranieri interessati solo a speculare e non certo al bene del Paese e dei cittadini? In base al principio dell’accelerazione dobbiamo accettare senza porci ragionevoli dubbi che si faccia razzia di terre con metodi a dir poco discutibili proprio nelle aree più fragili del Paese e sulla pelle delle comunità locali più in difficoltà?  

E poi qualcuno spieghi in base a quale ragionamento le comunità del Sud Italia e delle Isole, Sardegna in testa, dovrebbero accettare una transizione energetica che porta via a loro enormi porzioni di terre (anche se qualcuno gioca artatamente sulle percentuali per sminuire la cosa), minaccia la sopravvivenza di molte aziende agricole per generare energia per le economie del ricco Nord?

Al momento non sono previsti meccanismi di equità, di redistribuzione, di restituzione e di rispetto delle terre, capaci di garantire la non insorgenza di ingiustizie sociali ed ecologiche. Quelle comunità si sentono calpestate e ingannate, la loro condizione sociale ed economica non migliorerà e potrebbero finire per sostenere le compagini politiche più negazioniste che, invece e con furbizia, garantiscono loro di toglierli dalla fragilità e dal disagio economico.

Suggerirei pertanto di smettere di sbeffeggiare la Sardegna accusandola di essere la Regione più fossile, senza chiedersi come mai visto che sono in buona parte le nostre economie predatorie del passato e del Nord ad aver disegnato l’insostenibilità di quell’isola e di altre parti del Paese. E lo hanno fatto con strumenti di predazione e di convincimento non dissimili dagli attuali.  

Convincimenti che, a vedere meglio, sono deboli. Come lo sono le teorie di non impatto ambientale delle distese fotovoltaiche o agrivoltaiche e dell’eolico (basta andare in un cantiere o leggersi i progetti per accorgersi di quanto cemento viene usato). Come lo è promessa di occupazione locale perché quegli impianti richiedono pochissima manodopera che, peraltro, spesso non è neppur locale. Come è fallimentare l’idea di passare rapidamente alle rinnovabili senza lavorare a un parallelo cambiamento economico e culturale solo perché questo, dicono, è lento. 

Una buona parte della riduzione delle emissioni si otterrebbe rimettendo mano seriamente al risparmio energetico, al blocco del consumo di suolo, all’agricoltura convenzionale (enormemente emissiva ed energivora), ad alcune produzioni industriali, agli sprechi alimentari, al riscaldamento, al trasporto merci e al traffico.

Il clima lo proteggiamo non solo con il pedale dell’acceleratore sulle rinnovabili ma anche con quello del freno su tutto quel che produce e continua a produrre emissioni climalteranti. Davanti allo strapiombo non basta sterzare in un’altra direzione se si continua a correre: serve frenare la corsa. Migliaia sono le politiche che potremmo e dovremmo avviare -queste sì subito- per cambiare pelle al nostro stile di vita e ai comodi eccessi. Ma di questo improvvisamente non si parla più o è andato in fondo all’agenda illudendo la gente che le cose si sistemeranno con una bella auto elettrica e qualche rimedio tecnologico. 

Davvero basta una sostituzione di fonti energetiche senza abbandonare i nostri eccessi consumistici per aggiustare il clima e avere pace sociale? È questa la transizione energetica che volete e dobbiamo accettare? Ma perché la volete così? E perché appena qualcuno chiede una transizione giusta e una pianificazione rigorosa gli saltate al collo mordendogli la giugulare? Perché dobbiamo accettare di favorire i grandi investitori senza scrupoli e non le comunità energetiche, l’autoproduzione collettiva e tanti piccoli e medi impianti su tetti e aree impermeabili? Perché dobbiamo “fare alla svelta” e benedire deroghe e iniquità? Perché dobbiamo accettare il passaggio di mano di ettari ed ettari di terre? Solo perché invocare svolte culturali è complicato, allora dobbiamo rinunciarvi? Perché il vostro appello ad agire in fretta deve riguardare solo il fare pannelli solari a terra e non sui tetti? Perché in Italia dobbiamo rinunciare a “fare meglio”?

Sono decenni che accettiamo compromessi al ribasso e irrispettosi di partecipazione popolare ed ecosistemi, e non mi pare siamo approdati a una miglior situazione.  


Questo commento è una risposta alla rubrica di Stefano Caserini pubblicata sul numero 274 di Altreconomia (ottobre 2024).

Paolo Pileri è ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “Dalla parte del suolo” (Laterza, 2024)

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