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Esteri

Una risposta di genere

La crisi economica dell’autunno scorso ha portato l’Islanda alla bancarotta. La ripresa del Paese è affidata all’universo femminile “Dimenticate la Cina, l’India e internet, la crescita economica è guidata dalle donne”. Sembra un motto femminista di altri tempi ma non…

Tratto da Altreconomia 107 — Luglio/Agosto 2009

La crisi economica dell’autunno scorso ha portato l’Islanda alla bancarotta. La ripresa del Paese è affidata all’universo femminile

“Dimenticate la Cina, l’India e internet, la crescita economica è guidata dalle donne”. Sembra un motto femminista di altri tempi ma non è così. Questa è la filosofia di Audur Capital, una delle poche società islandesi del settore finanziario ad essere passata indenne dalla crisi che ha travolto il Paese. Forse l’unica. “Mettiamo i valori femminili nel mondo della finanza”, spiegano Halla Tomasdottir, ex direttore della Camera di Commercio islandese, e Kristin Petursdottir, ex dirigente bancario, le due donne manager a capo della società fondata appena due anni fa. “In un mondo di investimenti bancari dominato soprattutto da valori maschili e orientato al breve termine, si sentiva la necessità di valori differenti”.
La formula per il successo della società è piuttosto chiara e sta funzionando in un Paese, l’Islanda, che è (per ora) l’unica nazione al mondo ad essere finita in bancarotta dopo la crisi dell’autunno 2008. Una crisi che gli islandesi, 320mila in tutto, sparsi su una superficie di 103.125 chilometri quadrati, stanno pagando a un prezzo altissimo. Appena l’anno scorso, l’Islanda si collocava al primo posto dell’Indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite, davanti a Norvegia, Canada e Australia; oggi l’inflazione ha raggiunto il picco del 18,6% (nel gennaio del 2009, Statistics Iceland, www.statice.is) e chi aveva preso prestiti in valute straniere è sommerso dai debiti.
Come se non bastasse la disoccupazione è ai massimi livelli: nell’aprile 2008 era di appena l’1,1%, dopo un anno è salita al 9,1% (Statistics Iceland), e c’è chi è  pronto a scommettere che con la chiusura dell’anno accademico e scolastico, e la conseguente immissione di nuova forza lavoro sul mercato, queste cifre sono destinate a salire.
Intanto, i tassi di interesse hanno viaggiato sin dallo scorso ottobre intorno al 18%, e sono stati abbassati al 12% dalla Banca centrale d’Islanda solo a giugno 2009.
Era l’inizio di ottobre del 2008 quando l’allora premier conservatore Geir Haarde è stato costretto a nazionalizzare le prime tre banche del Paese, travolte da debiti esteri per 126 miliardi di dollari (dieci volte il Pil nazionale) e a sospendere il cambio della corona, la moneta locale. Un prestito d’emergenza da 10 miliardi di euro guidato dal Fondo monetario internazionale è riuscito ad evitare un crack ancora più pesante. Cifre da incubo per l’isola dei geyser che hanno innescato sedici settimane di proteste di piazza, sfociate all’inizio dell’anno nelle dimissioni del premier e nella caduta del governo.
Ma di chi è la colpa di tutto questo? “Sono gli uomini che hanno fatto andare in bancarotta l’Islanda e sarebbe ridicolo se continuassero ad agire come se niente fosse accaduto”, aveva dichiarato il celebre scrittore islandese Hallgrimur Helgason, autore del bestseller Reykjavík 101. Giovani banchieri spregiudicati “i cui occhi erano diventati più grandi del loro stomaco”, era stato il commento di un banchiere di Reykjavík. Sebbene l’Islanda sia quarta su 130 Paesi nella classifica internazionale di divario di genere, dopo Norvegia, Svezia e Finlandia (l’Italia è solo 67esima secondo il Global Gender Gap Report 2008), “l’ineguaglianza di genere ha giocato un ruolo importante nella crisi attuale”, afferma Katrín Anna Guðmundsdóttir, presidente dell’Associazione femminista islandese (www.feministinn.is) e attivista dell’associazione Women’s Emergency Government (www.kvennastjorn.is). “Questo non vale solo per l’Islanda e mi sorprende quanta poca attenzione si presti a queste tematiche quando parliamo di soluzioni e soprattutto prevenzione dal fare accadere di nuovo una cosa simile.
La forza motrice dietro la crisi non è stata solo il capitalismo e il neo-liberismo, ma anche i valori maschili di potere e controllo. In Islanda le donne a parità di lavoro sono ancora pagate meno degli uomini, le professioni delle donne sono pagate meno delle professioni degli uomini, e gli uomini hanno ancora più potere delle donne in politica, nel business e nei media. In una parola: le opportunità non sono le stesse per tutti, l’uguaglianza di genere in Islanda è ben lontana dall’essere perfetta e sono in molti a pensare che sia l’ineguaglianza di genere ad avere giocato un ruolo importante nella crisi attuale”.
È proprio per questi motivi che Halla Tomasdottir e Kristin Petursdottir di Audur Capital sostengono con fermezza l’importanza dei cinque valori chiave su cui si fonda la loro società. “Consapevolezza del rischio, risk awareness, in primo luogo, in quanto non investiamo in cose che non capiamo; secondo, profitto basato su principi: non puntiamo solo al profitto economico, ma anche a un impatto sociale ed ambientale positivo. Terzo, capitale emotivo: quando investiamo facciamo un’opera di Emotional Due Diligence (debita diligenza emotiva, ndr), o controllo sulla società -esaminiamo le persone, controlliamo se la cultura aziendale è un patrimonio o un ostacolo-. Quarto, l’utilizzo di un linguaggio il più chiaro possibile. Crediamo che il linguaggio della finanza debba essere accessibile, e non parte della natura alienante della cultura bancaria. Infine, indipendenza: vorremo vedere le donne sempre più indipendenti a livello finanziario, perché a ciò si lega la libertà di potere essere chi vuoi, oltre ad essere un semplice consiglio obiettivo che rivogliamo a tutte le donne”.
Lo staff di Audur sta crescendo, e gli uomini sono in netta minoranza: su ventisei impiegati sono solo sei.
Una delle iniziative che le ha rese più note è stato un’operazione di fundraising per la connazionale Björk, per la quale hanno creato un fondo che punta ad investire in progetti ambientali sostenibili e progetti culturali locali.
Profitto basato su principi, appunto: “Crediamo che un approccio diverso e più sostenibile ai servizi finanziari possa essere apprezzato sia dagli uomini, sia dalle donne e Audur vede grandi opportunità di business nei cambiamenti sociali e demografici: per questo puntiamo ad aumentare il capitale umano e finanziario delle donne, a un cambiamento dei valori e a un aumento della responsabilità sociale. Sono opportunità che il settore finanziario, e specialmente il mondo degli investimenti bancari, non sta sfruttando. Non è quello che facciamo a renderci differenti, ma come lo facciamo”.
Negli ultimi mesi molte donne hanno occupato le posizioni di comando lasciate libere dagli uomini ritenuti responsabili della crisi.
Jóhanna Sigurdardóttir in primis: Primo ministro del Paese dal 1 febbraio 2009. “Cambieremo l’intero consiglio della Banca centrale che ci ha lasciato questa drammatica eredità”, ha dichiarato alla stampa la premier non appena eletta.
È la prima donna alla guida dell’Islanda e anche la prima leader al mondo dichiaratamente omosessuale (anche se di questo la stampa islandese, al contrario di quella italiana, quasi non ha parlato). “Vareremo un comitato per valutare l’adesione all’Ue”. La Sigurdardóttir, un’elegante 66enne, da sei anni -come si legge sul sito del governo- unita civilmente alla 54enne giornalista e scrittrice Jonina Leosdottir, ha raccolto così la sfida di risollevare un Paese devastato, con una popolazione stanca e sconfitta. “Verrà il mio tempo”, aveva dichiarato quasi vent’anni fa ai suoi avversari, quando perse le primarie socialdemocratiche.
Oggi, dopo quasi 18 anni di governi conservatori, il Partito indipendente ha ceduto il posto a un’alleanza tra Socialdemocratici e Verdi.
L’Islanda insomma è da alcuni mesi in mano alle donne. Le due manager Elìn Sigfùsdòttir e Birna Einarsdòttir sono state messe a capo rispettivamente di New Landsbanki e New Glitnir, due delle tre banche nazionalizzate dal governo islandese, per cambiare innanzitutto la cultura dei bonus e delle stock option.
“Il punto è se le donne sono lì per rimanere anche dopo che la ‘pulizia’ sarà completata e le cose saranno tornate alla normalità -riprende Katrín Anna Guðmundsdóttir-. È quello che tutti ci auguriamo”.

Qualità da scoprire

Sull’isola è finita l’era dei ragazzi giovani e rampanti
“Quando esistono discriminazioni legate al genere, la società perde sempre l’opportunità di sfruttare al meglio le donne e gli uomini”. Bryndís Ísfold Hlöðversdóttir (nella foto sotto) è presidente della Commissione per la parità del ministero islandese degli Affari sociali.
Che ruolo stanno giocando le donne per superare la crisi in Islanda?
Dallo scoppio della crisi, il numero delle donne in Parlamento è aumentato, e per la prima volta nella storia il nostro Primo ministro è oggi una donna. Ciononostante, le donne sono meno della metà dei membri del Parlamento e dei ministri in carica: per questo non posso dire che il cambiamento sia definitivo. Ancora oggi la maggior parte degli uffici, sia nel settore privato sia in quello pubblico, sono guidati da uomini. All’inizio della crisi economica molte voci nel dibattito pubblico, sia nei media sia tra le persone, dicevano che l’era dei ragazzi giovani e rampanti alla guida di tutto, dal mercato finanziario al budget del governo, era finita, dato che ci avevano portato alla bancarotta. L’idea era quella che fosse giunto il tempo di fare spazio alle donne e di permettere loro di mettersi alla guida, con la coscienza economica che hanno usato per decenni per portare avanti le loro case. Ma sfortunatamente il cambiamento in questo senso non ha funzionato, anche se si sono fatti dei progressi, e il momento della completa uguaglianza tra i due sessi non è ancora arrivato.
In che modo le donne possono aiutare l’economia del Paese?
Credo che entrambi i sessi abbiano delle qualità che la società dovrebbe sfruttare. Le ricerche dimostrano che le donne possiedono una maggior consapevolezza del rischio e che per loro la possibilità di finire in bancarotta è minore. Una volta, quando si pensava che un mercato aperto con meno regolamentazioni possibili fosse l’unico modo per fare affari, questa qualità, che molte donne possiedono, non era considerata un vantaggio.
Ora che siamo stati testimoni dei drammatici effetti prodotti dal non avere regolamentazioni per proteggere il pubblico dalle banche private, abbiamo imparato che la risk awareness è essenziale nel gestire le cose. Proprio per questo ci dovrebbero essere maggiori opportunità per le donne. Riusciamo a immagine come sarebbero le cose se le donne e gli uomini nel mondo fossero effettivamente uguali?
Quindi sono gli uomini i responsabili della crisi attuale?
Non sono sicura di come, a livello globale, le cose avrebbero potuto essere gestite diversamente.
In Islanda, chi era al potere avrebbe dovuto rendersi conto, e avrebbe dovuto mettere delle regole più sicure per il bene pubblico. Ora il Paese sta pagando gli errori delle banche islandesi private.

L’abisso tra i ghiacci
7 ottobre 2008.Il governo islandese prende il controllo di due delle tre più grandi banche del Paese: Landsbanki e Glitnir.
L’8 ottobre anche la banca più grande, Kaupthing, finisce nelle mani del Governo.
28 ottobre. La Banca centrale islandese alza i tassi al 18%
20 novembre. Il Fondo monetario internazionale approva un prestito all’Islanda di 2,1 miliardi di dollari. Era dal 1976 che l’Fmi non concedeva un prestito ad un Paese dell’Europa occidentale.
23 gennaio 2009.Il Primo ministro Haarde chiede elezioni anticipate per il 9 maggio, due anni in anticipo, aggiungendo che non si ricandiderà a causa di un tumore alla gola.
26 gennaio. Haarde annuncia la caduta del Governo, dopo la fine del dialogo con i Socialdemocratici, il partner di coalizione.
31 gennaio. Una nuova alleanza tra Socialdemocratici e Verdi annuncia un governo ad interim, in vista delle elezioni del 25 Aprile.
1 febbraio. Il nuovo Primo ministro Johanna Sigurdardottir (nella foto sotto) spiega il suo piano per salvare l’Islanda, affermando che le priorità saranno cambiare l’intero consiglio della Banca centrale e la nascita di un comitato per valutare l’adesione all’Ue.

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